Sfamando mia figlia ho capito davvero l’Eucarestia

poutpourry

Allattare stanca.

Alzarsi di notte a scaldare un biberon ti sfinisce. Tirare il latte per portarlo tutti i giorni all’ospedale mentre guardi tuo figlio da un vetro mette alla prova. Sfamare i nostri figli è qualcosa di essenziale e soprattutto all’inizio questa sensazione ti (s)travolge: mangerà abbastanza? Avrà ancora fame? Starò facendo bene o mangerò abbastanza sano? È bello, è unico, è qualcosa di difficile da descrivere a parole, ma anche tremendamente stancante.
Essere cibo, allattando al seno o meno, essere vita per chi dipende così tanto da te è potenza, responsabilità, ma al tempo stesso vorresti non essere tu il centro di tutto: perché è così grande quello che ti viene chiesto, così importante ed essenziale per quel qualcuno. Devi esserci, sempre, di giorno, di notte, con la febbre e anche quando finalmente credevi di avere un minuto per te. Devi esserci, con tutta te stessa, con il tuo corpo, con la mente e tutta l’attenzione per quella piccola creatura che sì, dipende proprio da te.

Quanto è difficile essere cibo, Signore.

Che grande responsabilità è essere il nutrimento di una persona. Adesso lo capisco davvero. Ti sei fatto pane, per nutrirmi, per ricordarmi che sei essenziale come l’aria che respiro, come il latte con cui nutro mia figlia. Essenziale alla mia anima. Ti sei fatto vino per dirmi che ci sarai, sempre. Quando chiamo nella notte, piangendo perché non ti vedo e non sento il tuo calore e mi sono allontanata un po’ troppo, ma Tu sei lì.

Farti cibo è il modo più semplice per ricordarmi cosa significa avere fame e sete di te.

Perché la fame fisica la conosciamo bene. Allattare stanca. Non puoi mangiare piccante, niente caffeina, niente cavolo che poi alla bimba non piace. Preparare la formula è un impegno: dosaggi mai certi, aggiungi, togli, senti la temperatura sul polso. Tutta la tua vita come la conoscevi prima cambia. Non ci sono impegni, orari, c’è qualcosa di più importante che scavalca tutto il resto, tutta quella routine prima improrogabile. Adesso forse capisco, Signore. Cosa significa donarsi per la vita di un altro, metterlo davanti, sempre, non solo quando chiama, ma fare tutto in funzione di un suo bisogno. Capisco quanto ama chi si fa cibo per un altro. Quanto è bello, ma anche quanta fatica costa. È uno sforzo che non pesa, ma c’è. Allora grazie Signore, perché quando so che ti sei fatto pane e vino per me non c’era niente di più che potessi donarmi. Nessuna grazia, nessun miracolo. Ho già la vita, tutto quello che mi serve.
Ho il nutrimento, tutta la tua attenzione, tutto quello di cui la mia piccola anima ha bisogno per crescere in te.
Tutto passa da lì, come quando allatto mia figlia: tutte le difese immunitarie contro quello che ci aspetta fuori da quel caldo abbraccio. Tutto quello che serve a un bimbo indifeso tu puoi darglielo senza che lui lo chieda, senza che se ne renda conto. Così è con te, Signore. In quel pane c’è tutto: la forza, la speranza, l’amore. Tutto quello di cui il mio cuore e la mia anima necessitano tu lo sai già.
Mentre mi faccio cibo per mia figlia penso a che dono immenso è averti in quel pane. A quanto troppo poco lo comprendo eppure a quanto di essenziale dà alla mia piccola anima.

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