Ci vuole un villaggio

Dicono che per crescere un bambino serva un villaggio.

A volte, nelle giornate piene di “mamma, perché, vieni, cacca, lo voglio…” credo che non basterebbe una metropoli come New York in realtà. Comunque, se i pedagogisti dicono che basta un villaggio, io mi fido. Magari uno con qualche frazione annessa, ecco. Questo villaggio è la famiglia, sono gli amici, i parenti, i professionisti che attorniano una mamma e un papà e li aiutano a nascere e a far nascere. A volte quel villaggio non c’è, è lontano, non esiste per mille ragioni. Eppure, se la vita è patrimonio di tutti noi, se la missione a cui sono chiamati quei genitori è una piccola parte del futuro di tutti, allora quel villaggio non è solo questione di parentela, legami, amicizia. Quel villaggio siamo tutti noi. Tutti. Sono io che metto sull’altalena e spingo una bambina di nome Matilde, che fino a tre minuti fa non conoscevo e che si è messa a giocare con mia figlia, permettendo alla mamma e al papà di restare seduti a godersi l’aperitivo, per una volta, senza doversi alzare o smettere di parlare. E’ la vicina di casa, che porta le lasagne quando vede un fiocco rosa sulla porta, anche se ci si vede giusto alle riunioni di condominio. E’ una ragazza che si prende l’impegno di stare dietro ai figli degli altri per una settimana di campo scuola. E ci mette tempo (tanto), amore, pazienza (tantissima). È chi lascia il parcheggio rosa di cortesia vuoto, anche se non è obbligatorio. il tipo che mi fa passare avanti alla cassa del Super perché vede che mio figlio non riesco più a tenerlo davanti a quella parete di caramelle.

E’ un sacerdote di Bari, che ha messo un cartello con scritto “nessun bambino è un errore” e una culla riscaldata, in una via nascosta delle nostre città.

Che quando passo davanti a quella del mio ospedale mi chiedo sempre che suono abbia quell’allarme, lo stesso che il 19 luglio ha suonato proprio in quella via barese, che disperazione e che forza può indurre una donna, dopo nove mesi e il dolore di un parto, dopo aver stretto tra le braccia la cosa più bella del mondo, ad alzare lo sportello, schiacciare quel pulsante e dire addio. A Dio. Figlio mio. So che qualcuno si prenderà cura di te. So che c’è un villaggio là fuori che ti ama, che ti amerà almeno quanto ti ho amato io nel compiere questa scelta, invece che quella più facile, solo all’apparenza meno dolorosa, della morte. Quelle culle, ci ricordano che non siamo sole. Non dobbiamo scegliere da sole, non dobbiamo sentirci sole, mai. C’è un villaggio là fuori, forse piccolo, con nessuna frazione, ma c’è un villaggio pronto a sostenerci e ad amare anche il nostro bambino. Grazie a quelle mamme che credono in questo villaggio di perfetti sconosciuti, che potrà dare amore, cura, ma che c’è una cosa che non potrebbe mai dare al posto loro e che resterà per sempre il dono più grande e il segno di un amore materno vero e infinito nonostante tutto. La vita.

Immagine da Il Messaggero

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