QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #22 PERDERE TE STESSO

“Dovresti dormire un po’”. Sussulta, ma non si gira.  […]  Gli arrivo a fianco e mi sporgo dal bordo del parapetto. […]  “Nemmeno tu riesci a dormire?” . “Non riesco a spegnere il cervello” dico. “Pensavi alla tua famiglia?” chiede. “No” ammetto con un’aria un po’ colpevole. “Riesco solo a pensare a domani. Il che è inutile, ovviamente.”. Nella luce che viene da sotto, adesso vedo il suo viso, il modo maldestro in cui si tiene le mani fasciate. “Mi spiace davvero tanto per le tue mani”. “Non importa, Katniss” dice. “E comunque non sono mai stato in gara per la vittoria”. “Non è così che bisogna pensare” lo ammonisco. “Perché no? Spero solo di non comportarmi in modo vergognoso e… “. Esita. “E cosa?” chiedo. “Non so bene come dirlo. Solo non voglio… perdere me stesso. Ha un senso?” chiede. Scuoto la testa. Come potrebbe perdere se stesso? “Non voglio che mi cambino, là dentro. Che mi trasformino in una specie di mostro che non sono.”

Hunger Games, libro I, capitolo 10

Se vi dispiace di servire il Signore, scegliete oggi chi volete servire

Giosué 24:15

Ad un passo dal baratro,

quando la realtà si assottiglia così tanto da mettere in chiaro i punti fermi della vita e le cose che contano davvero, è lì che possiamo capire chi siamo. Sono attimi terribili, eppure se sappiamo guardarci dentro, diventano gli specchi della nostra anima.
Come Peeta, che sembra tenero, premuroso, maturo e forte, mostra di più: è integro, è totalizzante, è completo.
Sa cosa conta davvero, alla fine dei suoi giorni: sa per cosa morire, o meglio, per chi morire.

Così, la sua grandezza mette in discussione anche Kat, che non sa vedere più distante di se stessa.
Peeta sa che di lì a qualche ora tenteranno ogni modo per privarlo della vita, e non può farci nulla: così invece di piangersi addosso prende tra le mani ciò che dipende da lui.
Riaffiorano le grandi domande dell’esistenza: chi sono, perché sono, di cosa non possono privarmi, cosa mi definisce.
Sembrerebbero dettagli da nulla, quando hai la morte lì seduta ad aspettarti, eppure sono gli unici che valga davvero la pena rispondere fino all’ultimo respiro.

Perché no, non siamo nati per domande piccole, per accontentarci del “carpe diem”.
Noi siamo nati per cercare l’immenso, quello che chiamiamo Dio.
Per scoprire davvero a chi apparteniamo, da dove veniamo e dove andremo.
Peeta sa da dove viene, sente con forza le sue radici, quelle che vogliono togliergli: lui non è un mostro.

Non si piega alla logica degli eventi.

Per correre lontano dobbiamo avere i piedi ben saldi a terra.
Sembra un ossimoro eh. Invece è così per i migliori: piegarsi e farsi tutt’uno con la pedana di partenza, per i corridori; o come i nuotatori che si assottigliano al muro, girano veloci e sfruttano quella parete da cui tutto è iniziato per darsi la spinta verso un altra nuotata; o i campioni di salto che hanno bisogno del trampolino prima del lancio.
Ci vuole una base solida, che si faccia carico del peso della nostra persona, sicura per darci la spinta, per cogliere il momento di massima concentrazione e farlo fruttare, distaccandoci con forza da lei.
Questo è “da dove veniamo”, e Peeta ce l’ha molto chiaro, conosce le sue radici.
Per questo potrà mantenere se stesso anche nella foresta più buia.
Per questo saprà stagliarsi altro, essere anche lì un punto fermo per Kat.
Anche tra i rovi più insidiosi non rischierà di soffocare perché le sue radici sono forti, profonde, capaci, affidabili.
Non si farà rubare la sua storia da una situazione folle: non gli ruberanno il passato, non cambieranno la sua identità.

Mi ricorda i santi e le sante di cui leggiamo le storie nell’antica Roma, quei martiri immensi che sembrando ramoscelli elisi, in un attimo crescono e arrivano a mettere foglie in cielo. 
Queste storie qui, che non sono finzione, di ragazzi che non hanno sogni diversi dai nostri, ci scuotono, come un uragano che si abbatte su una foresta.
Ecco, qui giocano le radici, qui si gioca la partita della vita.
Perché se le avremo forti e robuste ci daranno lo slancio migliore della nostra esistenza verso l’infinito. Se sono marce, se sono deboli, se le tagliamo, crolleremo su noi stessi e non ci rialzeremo più.
Diventeremo niente più e niente meno di quei mostri di cui parla Peeta: quelli senza provenienza, quelli che non sanno chi sono, quelli che non vogliono ricordare e hanno solo un tempo in testa, il presente.

Invece noi abbiamo di più, dobbiamo pretendere di più: abbiamo un passato che ci tiene saldi, abbiamo un futuro dove poter balzare e perdere l’equilibrio, per avanzare, per mettere un passo dietro l’altro e camminare.
Non siamo fatti per vivere la staticità del presente ma per tendere a qualcosa, memori di cosa c’è alle nostre spalle.  
È  questa spinta a stagliarsi al di sopra delle piccole cose di oggi, a cui siamo chiamati ogni giorno, che ha bisogno di una forza nascosta nelle viscere dalla terra, per farci erigere saldi verso il cielo.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *