QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #1 LA BUONA SORTE

“Felici Hunger Games!E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!”

Hunger Games, libro I, capitolo 1

«Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore»

Matteo 6:21

C’è un detto dalle mie parti: “l’importante è la salute”.
Mai messo in discussione, nella scala delle priorità.
Eppure fa riflettere: la cosa più importante è fuori dalla nostra portata, fuori dal nostro controllo: è fortuna, dicono i più. Cosa sia poi questa fantomatica fortuna: da non offendere, da trattenere coi vari amuleti, da invocare con gesti apotropaici, da ringraziare, da propiziarsi.
In ogni caso, meglio non passare sotto una scala, no?
O non aprire un ombrello in casa.

Ricordo ancora mia zia che, all’ennesima rottura del motorino di mio cugino, gli diede un sacchetto di sale da tenere sotto il sellino: ebbene, controllo della pattuglia di routine, 7 ore in commissariato a giurare che no, non era droga quella, la potevano anche assaggiare.
La fortuna, quanto se la sarà risa da dietro le quinte!

Eppure ci teniamo, ci teniamo a fare le cose per bene, che non si può mai sapere.

E Dio?
Dio che ne sa della fortuna?

Sì, quel Dio che a Giobbe tolse ogni cosa per testare la sua fedeltà.
Quel Dio che a momenti fa sgozzare ad Abramo il suo unico figlio, il suo tutto. Quel Dio che non allontana il calice amaro al suo unigenito che l’ha sempre onorato e compiaciuto in tutto.
Che ne sa questo Dio di quanto sia indispensabile per noi la ricchezza, la salute nostra e dei nostri amati, il lavoro appagante e la giornata perfetta. Finché tutto va nel verso giusto, perché poi, dopo: “che sfortuna!”(ci piace rimanere sull’elegante!).
E allora, quanta fortuna avrebbe dovuto esserci nella vita di Gesù! Caspita, figlio di Dio, Dio incarnato, pezzo grosso, gocce d’acqua in vino e via la festa!
Ha tutti i requisiti per il loop di “una settimana da Dio”.
Invece nessuno ci racconta nulla: quattro amici o simpatizzanti informati sui fatti, qualcuno anche conoscente, e non una parola sulle serate passate ad inventare nuove stelle nelle notti d’estate, nessun ricordo su provvidenziali e tempestive guarigioni il giorno prima della gita programmata da mesi al lago, sulla festa di compleanno della Mamma con macarons, éclair e saint honoré della migliore pasticceria di Parigi direttamente dal futuro.

Il nulla.

E dopo del nulla, ci dicono della fatica dell’evangelizzare e dei tre anni passati a sgobbare prima della sua mattanza, che “il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo”, “Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti” e ancora “la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.  […] Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava”, e un dulcis in fundo di “I Giudei cercavano di ucciderlo”: che bella vita “fortunata”!
Senza casa, senza libertà di movimento, senza privacy o tempo per riposarsi, con gli assassini alle calcagna: neanche nei nostri migliori incubi. E, come se non bastasse, una morte ancora peggiore di ogni aspettativa, ignobile, infamante, disonorante, tra dolori fisici e lancinanti tormenti dello spirito.
A questo punto verrebbe da dire:

“Se questo è il pacchetto “Figlio di Dio”, figurati il mio!”.

In virtù di cosa avremmo il diritto ad un trattamento migliore?
Qui, proprio a questo punto, crolla tutto il castelletto della “fortuna” che il mondo ci propina: dei momenti perfetti, incontri perfetti, destini perfetti guidati da un’entità che aleggia sopra le nostre teste e che ogni tanto, come seguendo il corso della corrente, si insinua tra le fessure delle nostre vite.

Per questo i cristiani credono a molte cose, ma non alla fortuna: alla speranza, che ha la pretesa di illuminare anche le tenebre più nere della morte; alla misericordia, sì, di quella che si abbassa fino a prenderti per le orecchie pur di metterti nella strada giusta; alla fede che ci ha generato come eredi della figliolanza di Dio e del suo regno; e, sopra ad ognuna, alla carità, quella che arriva a dare la vita, a sporcarsi di sangue e tormenti, pur di amare fino alla fine.

Perché una vita passata ad interpretare il vagare nell’etere della fortuna che danza sopra le nostre esistenze come una bandieruola, di cui carpirne la rotta per farla collimare con la mia vita e strappare al nulla qualche brandello di felicità, beh, ha tutta l’aria di una vera e propria schiavitù, di una vita a brandelli in balia dell’inconsistenza e dell’ansia.

Gesù ci ha liberati dai fantasmi della vita perfetta, dove la morte ha smesso di essere l’ultima parola: “liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita.” Perché no, non c’è altra fortuna che il paradiso, per un cristiano: siamo davvero vivi, davvero liberi, davvero eterni, da sempre. Così che non spaventano più quelle ceneri sul capo, quel “ricorda” che sembra amplificare il rintocco della sabbia che scivola sulla clessidra della nostra vita a scadenza.

Una voce suggerisce: “Vai oltre, vai oltre! C’è di più di più!

C’è di più lanciando il cuore oltre l’ostacolo, oltre il mio rassicurante “quieto vivere”, oltre la mia stessa vita.”
Che io possa sempre ricordare che “preferisco il paradiso!” ad ogni tesoro terrestre, alla San Filippo Neri, e lasciare la mia anima libera di condurmi fin là.

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