Quaresima con Tolkien #28 – CASE DI GUARIGIONE

“le stelle hanno brillato nei loro posti di guardia
e hanno gioito;
egli le ha chiamate ed hanno risposto: “Eccoci!”,
e hanno brillato di gioia per colui che le ha create.”

Dal libro del profeta Baruc

<… prese la mano di Faramir nella sua, e gli posò l’altra sulla fronte. Era madida di sudore; Faramir non si mosse, né fece alcun segno, e pareva quasi non respirare. “Sta per spegnersi”, disse Aragorn rivolto a Gandalf. “Ma non a causa della ferita. Vedi: quella sta guarendo. […] Stanchezza, dolore per lo stato d’animo del padre, una ferita, e soprattutto l’Alito Nero”, disse Aragorn. “È uomo di forte volontà, perché già si era trovato molto vicino all’Ombra prima ancora di partire per la guerra. L’oscurità dev’essere lentamente penetrata in lui, mentre combatteva, lottando per salvare il suo avamposto. […] Aragorn s’inginocchiò accanto a Faramir, tenendogli una mano sulla fronte. E coloro che l’osservavano sentirono che era in corso una grande lotta: il viso di Aragorn divenne grigio per la stanchezza. Di tanto in tanto chiamava Faramir per nome, ma ogni volta con voce più fioca, come se anche lui si stesse allontanando, e camminando in qualche oscura ed erma vallata invocasse il nome di qualcuno che si era smarrito. Poi prese due foglie, le stese sulle palme delle mani e riscaldatele con l’alito le strofinò: immediatamente una sana freschezza empì la stanza, come […] rugiada in un mattino assolato e in una terra così splendida che la primavera del mondo non ne è che un’immagine effimera. […] Ad un tratto Faramir si mosse, aprì gli occhi, e guardò Aragorn chino su di lui; i suoi occhi brillarono d’una luce di coscienza e di affetto ed egli parlò dolcemente. “Mio sire, mi hai chiamato. Sono venuto. Cosa comanda il re?”. “Non camminare più nelle ombre, svegliati!”, disse Aragorn. “Sei molto stanco. Riposa adesso, e prendi del cibo, e sii pronto quando tornerò”. “Lo sarò, mio signore”, disse Faramir. “Chi potrebbe rimanere ozioso, ora che il re è tornato?”. […] Aragorn si recò da Éowyn e disse: “Qui vi sono una brutta frattura e una forte contusione. Il braccio rotto è stato curato con molta abilità e si aggiusterà col tempo, se ella avrà la forza di sopravvivere. Questo per quanto concerne il braccio che sorreggeva lo scudo; ma il male peggiore viene dal braccio che brandiva la spada. Sembra che in esso la vita non scorra, benché sia intatto. Ahimè! Ha affrontato un avversario superiore alle sue forze fisiche e mentali. E coloro che vibrano un colpo contro un simile nemico devono essere più resistenti dell’acciaio, o basterà l’urto a distruggerli. Fu un destino crudele a portarla sin qui. Ella è una splendida fanciulla, la più bella dama di una stirpe di regine. […] La sua malattia risale a tempi lontani “Ella nel suo corpo di fanciulla possedeva uno spirito e un coraggio senza dubbio […] chissà quali parole pronunciava, sola, nell’oscurità, durante le amare veglie, quando tutta la sua vita sembrava rimpicciolirsi e le mura della sua stanza parevano chiudersi intorno a lei, come una gabbia che intrappola una bestia selvaggia?”. si curvò e baciandole la fronte la chiamò dolcemente, dicendo: “Éowyn, figlia di Éomund, destati! Il tuo nemico è partito per sempre!”. Ella non si mosse, ma cominciò a respirare di nuovo profondamente, tanto che il suo petto si alzava e si abbassava sotto il bianco lino del lenzuolo. Aragorn strofinò anche questa volta due foglie di athelas per poi gettarle nell’acqua bollente, lavandole poi la fronte e il braccio destro […] parve a tutti i presenti di sentire il vento soffiare attraverso la finestra, un’aria senza alcun profumo, fresca, pulita e giovane, un’aria che mai nessuno ancora aveva respirato, proveniente da alte vette nevose sotto una volta stellata, o da spiagge scintillanti d’argento sulle quali scrosciava la spuma. “Destati, Éowyn, Dama di Rohan!”, ripeté Aragorn, e prendendole la mano destra vi sentì ritornare il calore e la vita. “Destati! L’ombra è scomparsa, ed ogni oscurità è stata cancellata!”. Poi mise la mano di lei in quella di Éomer e si allontanò. “Chiamala!”, disse, ed uscì silenziosamente dalla stanza. […] Gandalf e Pipino giunsero nella stanza di Merry, e trovarono Aragorn in piedi accanto al letto. […] disse Aragorn. “Sono arrivato in tempo, e l’ho chiamato in sé. Egli è stanco ora, e sofferente, e la sua ferita è simile a quella di Dama Éowyn, poiché ambedue hanno ardito colpire quell’essere nefando. Ma è un danno facilmente sanabile, quando si ha uno spirito forte e allegro come il suo. Non dimenticherà le sofferenze passate, ma il suo cuore non ne sarà oscurato; egli apprenderà la saggezza”. Poi Aragorn posò la mano sulla testa di Merry, e accarezzando dolcemente i riccioli bruni gli toccò le palpebre e lo chiamò per nome. E quando la fragranza dell’athelas impregnò la stanza con il profumo di frutteti e di erica assolata piena di api, improvvisamente Merry si svegliò e disse: “Ho fame. Che ore sono?”. >>

Il Signore degli Anelli, Il ritorno del Re, libro I, cap. VIII, “Le Case di Guarigione”.

Tutti nella loro vita, lo cercano.

Lo cercano Maria e Giuseppe: “Perché ci hai fatto questo?”. Mentre lui appena teenager rincalza la dose: “Perché mi cercavate?”. Lo cercano i discepoli “Abbiamo trovato il Messia”, mentre lui replicherà loro “Che cosa cercate?”. E man a mano che Gesù si fa conoscere, non c’è più nessuna distinzione: “Tutti ti cercano”, diranno gli apostoli. Ci sono occasioni in cui però non siamo più noi a fare il primo passo, forse perché ci “allontaniamo, camminando in qualche oscura ed erma vallata”, smarriti, come in preda all’Ombra Nera, di qualche Nazgûl. È lì, quando vaghiamo nel nulla, che Gesù viene a cercarci, si posa su di noi sussurrandoci, come ad Éowyn, “Talitha Kum”.
È questo il momento in cui siamo privi delle nostre domande asfissianti, dei nostri perché, della lista di quello che ci servirebbe per il nostro mondo perfetto. La vita ci ha così messi alla prova, tanto da non aver più niente da chiedere: siamo sfiniti, vagabondi senza pace, ma anche senza pretese, perché cosa vuoi pretendere dal nulla?
Questo avviene quando tocchiamo il fondo all’abisso: il vuoto.
Il silenzio è assordante, eppure è necessario quando vuoi far rimbombare le pareti spoglie per sentirti padrone di noi stesso, di nuovo. Come può non risvegliare quel “Talitha Kum” sussurrato all’orecchio, come si può non rispondere “Mio sire, mi hai chiamato. Cosa comandi?”. E non perché si è in debito, ma perché la vita restituita in questa pienezza, è un paradiso che si spalanca. Come non alzarsi di corsa? Certo, non ci sarebbe bisogno di arrivare alla fine della nostra vita per darti spazio, non c’è motivo di essere mezzi morti per svuotarci davvero.
Ai tuoi, che amavi, hai ridato quella sete di senso che li faceva vagare, che li faceva cercare un “qualcuno” che mettesse a posto i pezzi. Li hai visti pieni: di idee, di certezze preconfezionate, di dogmi sul Messia, di liste da seguire e cose da fare, di standard da mantenere. Ma da loro volevi di più. Volevi spazio, volevi cuori vuoti: quel cercare non è la pratica yoga che ti ribalta la vita, la meditazione che ti ammette al nirvana, il coach che ti dà la risposta. No, non basta colmare le nostre stanze, tu quelle pareti le vuoi abbattere per darci spazi nuovi, per renderci capaci di distruggere prima i nostri muri, per renderci “vasti” dentro, per scoprirci capienti di una grandezza che neanche noi immaginavamo, circondati non da mattoni ma da vetrate che sbaragliano ogni ombra. Gli hai fatto una domanda che potesse svelare un’inquietudine abissale: “Cosa cercate?”. Ed ogni volta che la leggo mi rimbomba dentro e quelle pareti vuote che si allargano a dismisura. Le percepisco anche io, perché fanno sentire il deserto, il nulla anche in me.
Così ci metti in crisi, ci lasci con un vuoto enorme oltre quella pietra pesante che abbiamo rotolato venerdì, che ci separa da te, unico in grado di far entrare vita.
Ci lasci fuori, da soli, a barcollare nell’insensatezza per tre gironi, con parole troppo criptiche e surreali per capire: risurrezione! Questa, neanche mentre predicavi la si capiva molto bene eh.
Marta, che ti conosceva, quando l’hai lasciata a seppellire Lazzaro ti ha tirato le orecchie: “ma come, ti ho fatto chiamare e hai fatto tardi, adesso ti presenti, quando l’abbiamo pure seppellito?”. “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Senza scomporti troppo, visto che era la prima volta e povera Marta, come poterla biasimare, le hai detto: “Tuo fratello risorgerà. […] Io sono la risurrezione e la vita”. Marta è una che sta sul pezzo, risponde a tono sui fatti, con te Gesù che la prendi per le spalle e la scuoti: “sveglia Marta, non puoi non avermi riconosciuto, tu sai chi sono”. Non ti nego che anche la mia fede, che pure pensa di conoscerti, mi avrebbe portata, come lei, a chiamare Maria, dicendogli di nascosto: “guarda c’è Gesù, ma sei tu quella che lo capisce meglio, io vi seguo ma pensaci tu, che ho già le idee confuse di mio!”, “Il Maestro è qui e ti chiama”. E Maria adesso non è da meno: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Gesù stavolta rimane molto turbato: forse quando Maria gli propina la stessa risposta, gli saranno cadute le braccia: “Eh no Maria, pure tu, ma come? Hai ascoltato la mia voce più di tua sorella, cui la vita ha riservato l’umiltà del servire, ma a te aveva donato di apprendere dalle mie parole. Tu quoque non sai chi sono io?”. Anche questa volta hai lasciato che tutto accadesse, che Maria e Marta trovassero la strada per raggiungerti. Non sei tu ad andarle in contro, anzi, non entri neanche nel villaggio, e forse inizio a capire perché: non c’è spazio. “Domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”.” Ed è adesso, proprio ora, il momento: quando ogni certezza è caduta, ora che i cuori sono vuoti delle loro verità, messi davanti al mistero che Gesù gli pone, che lui entra e riporta tutto il senso che la vita aveva perduto.
Ci scuote dal nostro torpore di tenebra, dal nostro nulla, ci fa uscire dalla morte che portiamo dentro: “Togliete la pietra! […] gridò a gran voce ”Lazzaro, vieni fuori! […] Scioglietelo e lasciatelo andare”.
Come la Maddalena, che “stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva”.
Maria “all’esterno”, non riesce a rientrare in sé, si trova fuori della sua anima, per questo non può più trovarti.
Maria “vicina al sepolcro”, più vicina alla morte che alla vita.
Maria “piangeva” e disperando nelle lacrime, non è in grado di sfuggire alla sua tomba interiore.
Ma più di tutto, Maria non si accorge che la tomba è vuota.
Forse perché quel vuoto in realtà se lo porta dentro, per questo non può vedere la realtà fuori, perché le sembra scontato che ci sia un masso gigante ed insormontabile a separarla dalla vita che le dava quel “rabbunì”, quel messia che lei percepisce come morto e sepolto.
“Si voltò e vide Gesù in piedi, ma non sapeva che era lui.”: gli occhi di Maria sono ciechi, così come cieco diventa il nostro cuore quando è sovrastato dal nulla, quando non vediamo più speranza, quando perdiamo anche la capacità di sapere ciò che abbiamo conosciuto, e allora la nostra vita non ha più “sapore”.
Così è Gesù la riporta in sé, verso quel senso che non si riesce più a trovare: “Perché piangi? Chi cerchi?”
È paradossale: lei cerca un morto ma non si accorge che l’unica morta è lei, lei è disperata nella tomba che si è creata, ma lui la riporterà alla vita come Lazzaro, come la figlia di Giairo.
Lui è oltre quella tomba, lui ci tira fuori, lui ci riporta all’esistenza.
Gesù aspetta il momento giusto per entrare, quando quel cuore lo svuotiamo e siamo disposti a silenziare la mente, i pensieri, per un attimo.
Come i due di Emmaus che “cercavano insieme il senso di quello che era accaduto”, e a cui Gesù si fa presente per svelare il mistero, e abbandonare l’idea di quel finale tutto umano che si erano immaginati.
E non sempre la nostra fede è abbastanza umile da mettere tutto a tacere, a volte anche la vita ci lancia certe urla che ci atterriscono e ci rintronano al punto da lasciarci senza parole, come l’ultimo grido del Nazgûl che riecheggia ancora in Éowyn.
E in quel vuoto, Gesù ci restituisce noi stessi: ci chiama per nome.
Come la Maddalena che può riconoscerlo solo quando si sentirà chiamata da lui.
Solo quando quel suono riempirà ogni fibra di sé stessa, ogni pensiero, senza il brusio di sottofondo di disperazione e pensieri confusi, di richieste e finali a modo nostro.
Perché il nostro nome non potrà bastarci mentre siamo ancora qui a chiederti soldi, lavoro, casa, amore, figli, salute, benessere, certezze.
Ed al contrario, quel nome, è l’unica cosa di cui abbiamo bisogno per vivere, per non brancolare nelle nostre tenebre, per svegliarci alla vita che ci chiama. Come Faramir in cerca dell’amore del padre, di qualcosa che avrebbe dovuto ricevere “di diritto” ma che da solo non può donarsi. Come Éowyn intrappolata dai suoi ideali sulla vita e su come andrebbe vissuta, sulla gloria e il valore messi al centro come unico senso di un’esistenza degna.
Gesù ci cerca quando siamo abbastanza silenziosi da poterlo ascoltare, non per spiegarci il senso della nostra esistenza, non per darci la saggezza del mondo in un unico grande discorso.
No, a lui basta che ci mettiamo a tacere il tempo del nostro nome.
Il poco tempo necessario a pronunciarlo.
Lui ci restituisce la cosa che ama di più: noi stessi, il nostro vero sapore.
Ma noi davvero eh, non quello che vorremmo essere, che pensiamo dovremmo essere, o quello che pensavamo di essere: noi e basta.
Questa verità pura e sconvolgente, essenziale e completa nella sua semplicità, che ci rende “a sua immagine”, non può donarcela il mondo.
Come le promesse di quaggiù non potevano donare pienezza a quelle “stelle”, a quelle anime pure, le stesse di Osgiliath, “moltitudine di astri”, che parlano di grandi sogni, di immensità e di cielo.
Quelle che si fidano e bruciano di te, perché si sono sentite chiamare ad una ad una.
Loro Signore, che nel sentirsi chiamare brillano nei loro posti di guardia, loro che arrivano a compiersi lì dove si trovano, in assoluta pienezza, senza bramare altre vette che non siano quelle al fianco del loro Dio.
Hanno gioito quando sono state chiamate, hanno risposto: “Eccoci!”, brillando di gioia per colui che le ha create.
Questa potenza, che è stata la risurrezione, noi ce l’abbiamo stampata dentro, brilla anche nelle nostre tenebre.
È solo distante una pietra da noi. Lo so, è grande e pensiamo di non poterla rotolare da soli, ma invece di correre a prendere il piccone, questa volta “la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande”.
Il più è fatto, facciamoci donare il “nostro sapore”: chiudiamo gli occhi, e lasciamogli pronunciare il nostro nome.

Oggi sperimentiamo il vuoto e il silenzio, oggi vaghiamo come Faramir, pensando che tutto sia finito. Domani, risorgeremo.

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