Quaresima con Tolkien #23 – OSGILIATH

TROVATE TUTTE LE RIFLESSIONI anche versione PODCAST su MIXCLOUD 👉 https://www.mixcloud.com/marthamaryandme/

“Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: “Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta”. Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori vacilleranno e non potranno prevalere; arrossiranno perché non avranno successo, sarà una vergogna eterna e incancellabile.”

Dal libro del profeta Geremìa

<<(Denethor) “Non mi arrenderò, se qui c’è ancora un capitano che abbia ancora il coraggio di fare ciò che il suo sire comanda”. Tutti tacquero. Dopo qualche minuto Faramir parlò: “Sire, non mi oppongo alla tua volontà. Ora che sei privato di Boromir, andrò io, e farò ciò che potrò cercando di sostituirlo nel migliore dei modi… se tu lo comandi”. “Io lo comando”, disse Denethor. “Allora addio!”, disse Faramir. >>

Il Signore degli Anelli, Il ritorno del Re, libro I, cap. IV, ” L’Assedio di Gondor”

Osgiliath significa “Fortezza della Moltitudine di Stelle”,

“Fortezza dello Stuolo di Stelle”, così come l’edificio chiave della città era la “Cupola delle Stelle”, “Rond Giliath”, custode del Palantír della città.
Per la sua posizione strategica, da capitale che fu un tempo, già da molti anni era stata trasformata in città-fortezza, in prima linea contro le forze di Mordor.
Dopo che Boromir partì per Gran Burrone, le difese della città vennero affidate a Faramir. Ma anche il suo coraggio e la sua astuzia non bastarono di fronte alla forza devastante del nemico: i soldati furono costretti alla ritirata e Faramir, combattendo fino alla fine, venne ferito gravemente.
Di tutti quei cavalieri leali al loro sire, risoluti nella battaglia al male, nessuno conosce i nomi, nessuno sa le storie.
Padri, mariti, fratelli, amori.
Di chi sono quei volti?
Degli uomini valorosi che si batterono per la lotta all’oscurità, non è rimasto niente.
Li possiamo immaginare nobili, nel loro animo, orgogliosi, belli, ma anche tristi: chi può essere felice di perdere la vita?
Se pensiamo ai martiri, maschi o femmine che siano, ci compaiono una raffica indefinita di immagini da santino: belli e sereni, avvolti da un’aura di pace che neanche la morte può turbare.
Però non è così che è andata la storia, non c’era proprio la luce divina tipo filtro di Instagram, quando si sono sacrificati: se chiudo gli occhi sento in me la stessa paura, lo stesso terrore. E mi paralizza.
Al di là delle nostre romanzate fantasie ci sono volti, sogni, vite spezzate più o meno presto.
Avranno stretto i denti, saranno scorse le ultime lacrime nel loro volto alla vista della spada e dei tormenti, avranno gridato, magari tremato, chiesto che passasse da loro quel calice perché nessun amante di Dio può scegliere la morte.

Nessuno può gioire delle tenebre che prendono il sopravvento sulla vita.

Loro non hanno preferito la morte.
Semplicemente, in quel momento, non c’era alternativa.
Così come una mamma non metterebbe mai la sua vita davanti a quella del figlio, allo stesso modo non c’è altra strada, per chi ama.
Ci penso spesso: bastava una bugia, bastava conservare la verità nel proprio cuore, bastava compiere un semplice gesto, senza crederci.
Certamente noi consideriamo la loro fedeltà eroica, ma se avessimo un figlio, ci sembrerebbe un atto eroico dare la nostra vita per lui?
Non sarebbe invece la cosa più naturale e logica, di fronte alla scelta tra noi e chi amiamo, tra me e la “carne della mia carne”?
Forse io quel sacrificarsi non lo posso comprendere perché la misura della mia fede non è arrivata a quella dell’amore.
I martiri non volevano fare gli eroi, non erano suicidi o masochisti: avevano trovato la pienezza dell’esistere, ciò per cui, ai loro occhi, valeva la pena vivere, e di conseguenza, anche morire, se necessario.
Se avessero tolto il senso, a quella vita, cosa sarebbe rimasto?
Un corpo mosso da muscoli senza una meta, dei polmoni funzionanti senza la vita a riempirli, un cuore che pulsa avido e forte senza energia da infondere alle membra, degli occhi che vedono la realtà senza la luce di Dio per trasfigurarla.
Il paradiso in terra non è solo il dipinto che ammiriamo nei muri della chiesa, quelle volte blu cobalto piene di stelle dorate simmetriche, ma la vita che scegliamo ogni giorno, o meglio, che dovremmo cercare.

Noi da che parte stiamo?

Siamo degni di questo presente, di queste giornate, della monotonia che quotidianamente ci fa sentire uguali e poco rilevanti? Viviamo per essere pronti al martirio? O almeno viviamo ogni giorno il piccolo, ma lento martirio, di cui ci è chiesto di farci carico? Se saremo fedeli nel poco, lo saremo anche nel molto.

Se solo sapessimo a che ora arriverà la fine, non vivremmo forse ogni attimo, ogni istante, con passione e coraggio?
Quelle stelle, nel cielo, non devono ingannarci: non sono lì per abbellire la volta, ma il loro chiarore brilla nel buio della notte, una luce che sa di eternità, che ci ricorda di vivere in pienezza, che ci sprona a desiderare di far parte di quel meraviglioso infinito, di scegliere per cosa valga la pena morire, ed ancora più importante, per cosa vale la pena vivere, anche oggi.
È buio, è freddo, è terrificante il sacrificio che sono stati disposti a compiere i martiri: perché in quell’attimo anche il velo delle tenebre sembrava ricadere su di loro, coprire tutto, senza speranza di vedere l’aurora, il sole.
Io non ho ancora raggiunto la vita che vivevano loro, lo splendore della pienezza, non so se a quella meta ci arriverò mai (sembra ancora più distante di quelle stelle!).
So solo che Dio ha concesso loro di brillare nella notte e, davanti a questo spettacolo, di farmi sentire partecipe a mia volta di quell’infinito: di essere chiamata per nome.
Non smetteremo mai di stupirci ed emozionarci davanti a certe stelle, se siamo abbastanza attenti da ascoltarne il richiamo. Solo così ci accorgeremo di come quel cielo sia lì per farci alzare gli occhi verso Dio, per farci sentire sete di quell’immensità, per lasciare spazio a un po’ di sana inquietudine, da dover riempire di lui il giorno dopo.
Era splendida, Osgiliath, era la capitale, era il fiore della civiltà e della vita. Eppure va riconquistata anche oggi, perché il male si muove nell’ombra, quando neanche ce ne accorgiamo. Va recuperata e ricostruita dalle macerie delle ideologie, dagli inganni del mondo, dagli schieramenti che vogliono dividerci, che vogliono farci guardare a destra o a sinistra, mentre un’altra deve essere la direzione del nostro sguardo: quei puntini distanti, ma così luminosi che ti sembra quasi di toccarli, di poterci arrivare. E sì, possiamo. Quella “chiamata alle stelle” di tutti i coraggiosi ragazzi che non si sono tirati indietro davanti alla loro “Osgiliath”, quelle vite piene, interrogano anche me: “Scegli. Scegli per quale motivo dovresti fare un altro respiro, scegli di cosa vuoi riempire i tuoi polmoni, scegli cosa vuoi far pulsare nel tuo cuore, scegli cosa diffondere in tutte le tue membra, scegli che strada percorrere.”
Ogni sera ricordati di guardare quelle stelle, concedi alla tua vita di elevarsi al massimo grado, alza gli occhi a Dio, a quelle guide splendenti, per sapere se sei nella direzione giusta.

<< (Beregond:) “Eppure, Messere Peregrino, godiamo di un grande onore: siamo noi a sopportare il maggior peso dell’odio dell’Oscuro Signore, poiché è un odio che proviene dagli abissi del tempo e dal più profondo del Mare. È su di noi che il colpo piomberà con maggior violenza; ed è per questo motivo che Mithrandir si è affrettato a venire qui così velocemente. Se cadiamo noi, chi rimarrà in piedi? E tu, Messere Peregrino, credi che sia possibile per noi rimanere in piedi?”. […] Pipino levò lo sguardo e vide che il sole brillava ancora, che gli stendardi svolazzavano al vento. […] “Il mio cuore si rifiuta di disperare. Gandalf cadde, eppure è ritornato ed è qui fra noi. “Anche se le mura saranno conquistate da inesorabili nemici che vi innalzeranno davanti una montagna di carogne, vi sono ancora altre fortezze e sentieri segreti per fuggire nelle montagne. La speranza ed i ricordi potranno sopravvivere in qualche valle nascosta ove l’erba è verde”. “Tuttavia vorrei che tutto fosse già finito, bene o male che sia”, disse Pipino. “Non sono assolutamente un guerriero, e il pensiero di una battaglia non mi piace; ma attendere ai margini di una guerra senza scampo è la peggiore cosa che mi potesse accadere. “Ma le cose potrebbero cambiare al ritorno di Faramir. Egli è ardito, più di quanto molti sospettino; di questi tempi gli uomini difficilmente credono che un capitano possa essere saggio e colto e conoscere come lui canti e tradizioni, e al tempo stesso essere sul campo un uomo coraggioso e dalle rapide decisioni. Eppure, tale è Faramir. Meno spregiudicato e ansioso di Boromir, ma non meno risoluto”. >>

Il Signore degli Anelli, Il Ritorno del Re, libro I, cap. I, “Minas Tirith”
0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *