Quaresima con Tolkien #21 – LA CITTADELLA

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“Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi.”

Dal Vangelo di Giovanni

<< “Quanto a me”, disse Faramir, “desidererei veder rifiorire l’Albero bianco nei cortili dei re e ritornare la Corona d’Argento, e la pace a Minas Tirith: Minas Anor qual era in passato, reame di luce, alta e splendente, bella come una regina fra le regine […] Amo solo ciò che difendo: la città degli uomini di Númenor; e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza.” >>

Il Signore degli Anelli, Le due torri, libro II, cap. VI, “Lo stagno proibito”

L’albero di Gondor

discendeva da uno dei semi dell’albero donato agli elfi dai Vala. Era un albero del tutto simile a quello della città beata, ma era stato diversamente creato, perché non emettesse luce propria ma spendesse di luce riflessa, restando unico e magnifico nel suo genere. Dopo il susseguirsi di tre alberi, l’ultimo si seccò senza lasciare semi o germogli: niente più frutti e fioriture, nemmeno sporadiche, da quando la Linea dei Re si era spezzata. L’Albero giaceva morto nel Cortile davanti alla Torre, dove un tempo invece svettava in fiore. Si diceva attendesse il ritorno del Re.

Che ci sta a fare quell’albero nel palazzo reale, nella grande piazza, secco e senza vita?

Perché è lasciato lì, come un mausoleo dei bei tempi antichi, presagio di sventura e morte per chiunque l’osservasse? Eppure, anche durante il governo dei Sovrintendenti l’albero era rimasto vivo, ben ventuno se ne erano susseguiti prima di seccarsi, quando i re non erano più nella città da molto oramai. Allora quand’è che quell’albero antico e splendente ha smesso di far crescere i suoi germogli, quand’è che si è fermato e non ha allungato più i suoi rami? È stato lui a stufarsi di attendere, o siamo stati noi, a stancarci di sperare?

C’è un’alta cosa morta che spesso mettiamo in bella vista nelle nostre case: il crocifisso. Perché dico “morta”?

Non certo perché è una croce con un uomo morto (come qualcuno, mi pare di ricordare, l’aveva chiamata), ma perché spesso siamo noi a vederla senza vita. Quell’Albero Bianco, simbolo di Gondor, celebrato negli stemmi reali, ricordo del regno beato dei Vala, memoria del mondo che va oltre la “Terra di Mezzo”, è solo un cimelio, solo una pianta da arredamento? Perché se è così, tanto vale che muoia. Se per noi quello è un simbolo da tradizione, tanto vale lasciarlo come pezzo di design al massimo, come le madonne sugli abiti nelle passerelle di alta moda. Se deve stare appeso di fianco al cornetto nello specchietto dell’auto o sopra a certi calendari che si vedono spesso nelle carrozzerie o insieme alle catene abbinate a maglie strappate e rimmel, al collo di non si quale cantante Rock, non sarà altro che legno morto, abito di scena. Anche noi, a volte, lo appendiamo perché “così si fa” e poi ce ne scordiamo, magari neanche ci badiamo più e non farebbe differenza se ci fosse o no: è quello che dissero anche nella mia scuola, quando qualche anno fa volevano togliere il crocifisso dalle classi. Non mi appellai a chissà che retorica dei tempi “addietro”, a qualche inno alla libertà e alle nostre radici, a qualche proclama sui valori e su chi dobbiamo ringraziare se in Europa ne sono rimasti almeno alcuni: non perché nessuno mi avrebbero dato ragione, ma perché quel crocifisso per me non era simbolo di morte, non era morto, non era legno secco. Quel crocifisso lo guardavo la mattina, stavamo insieme cinque ore, a lui alzavo lo sguardo durante i compiti in classe o quando ai temi non mi uscivano le parole: era il mio compagno di classe. E senza, ne avrei sentito la mancanza, non sarebbe stato uguale senza. Non era un albero secco in una “piazza” di studenti, nel va e vieni delle giornate.

Per me, quella presenza, faceva la differenza.

Poi anche io sono cresciuta e nel marasma quotidiano qualche volta gli faccio sì e no un saluto al volo la sera, prima di chiudere gli occhi, come se la mia giornata non avesse tempo neanche per guardarlo in faccia, neanche per ringraziare di almeno uno dei chissà-quanti-mila respiri fatti anche oggi. Allora forse vale la pena chiedersi: quando ha smesso di fiorire quel crocifisso per me, quella collana che porto al petto e sembra ci tenga tanto solo quando credo di averla persa, o quel rosario sulla mia auto che chissà quanti quasi-incidenti mi avrà visto evitare? Lo faccio sempre il segno di croce, passando davanti ad una chiesa, un cimitero o una “figuretta” lungo la strada, o non ho più tempo neanche per quello?

La croce può sembrare legno morto, ma quando te la disegni addosso prende vita: quando tracci quelle diagonali immaginarie dalla fronte al petto e poi tra le spalle, non è più solo dolore, perché se unisci i quattro punti, puoi scoprire che è uno scudo.

Uno scudo per affrontare la giornata, per farti sentire al sicuro anche quando non hai spade. Sembra quasi una favoletta romanzata, una scaramanzia da fare in fretta senza dare nell’occhio, ma la mia visione cambiò quando un sacerdote esorcista raccontò di un giovane che si era rivolto a lui e che quel semplice movimento che tante volte io ho snobbato sovrappensiero, non riusciva più a farselo. Mi accorgo mai veramente di questo scudo? La faccio mia quella croce o è solo una finzione? Quando poi arriverà quella che la vita sceglierà per me, di croce, non la disegnerò più addosso con tutta quella leggerezza, ma spero che non debba arrivare il peso di una croce dolorosa da mille chili per accorgermi dell’importanza anche delle piccole croci quotidiane, del valore di quel gesto e di quel legno sul muro.

In casa, ho appeso le mura al crocifisso? Sì, avete capito bene: ho aggrappato la mia vita all’Unico che può veramente darmela?

A volte rimane solo, lì, tra le pareti della stanza, mentre sono proprio io che lo faccio “seccare”. E quando le gioie del mondo le vedo solo nell’erba sempre più verde delle vite degli altri, e da me scorgo solo nuda roccia, sterile e fredda, forse dovrei fare come Aragorn e girarmi verso quel Gandalf che mi ricorda che io, le mie mura, devo farle fiorire.

<<“E chi allora governerà Gondor e coloro che considerano questa Città la loro regina, se il mio desiderio non verrà esaudito? L’Albero nel Cortile della Fontana è ancora nudo e avvizzito. Quando vedrò un segno di mutamento?”. “Distogli il viso dal verde mondo, e guarda là ove ogni cosa sembra nuda e fredda!”, disse Gandalf. Allora Aragorn si voltò, e alle sue spalle vi era un pendio roccioso che scendeva dalle alture coperte di neve; e guardando si accorse che in mezzo al deserto cresceva qualcosa. Si arrampicò, e vide che proprio al bordo della neve spuntava un alberello non più alto di tre piedi. Aveva già delle giovani foglie lunghe ed esili, scure sopra e argentee di sotto, e in cima un piccolo grappolo di fiori scintillava come la neve illuminata dal sole. Allora Aragorn gridò: “Yé! utùvienyes! L’ho trovato! Guarda! Ecco un erede del Più Antico degli Alberi! Ma come mai cresce qui? Non ha neanche sette anni”. E Gandalf avvicinatosi lo guardò e disse: “In verità questo è un alberello della linea di Nimloth il Bello; seme di Galathilion e frutto di Telperion dai molti nomi, il Più Antico degli Alberi. Chi può dire come mai si trovi qui all’ora indicata? Ma questo è un luogo antico, e prima che i re si estinguessero e che l’Albero appassisse, fu indubbiamente deposto qui un frutto. Poiché dicono che benché il frutto dell’Albero maturi di rado, la vita in esso può tuttavia covare per lunghi anni, e nessuno può prevedere quando si desterà. Ricorda ciò che ti dico. Se mai un frutto maturerà, dovrà essere piantato, affinché non scompaia dal mondo per sempre. Qui è rimasto nascosto sulla montagna, come la razza di Elendil è rimasta nascosta nei deserti del Nord. Eppure la linea di Nimloth è molto più antica della tua, Re Elessar”.>>

Il Signore degli Anelli, Il Ritorno del Re, libro II, cap. V, “Il Sovrintendente e il Re”
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