Quaresima con Tolkien #20 – MINAS TIRITH

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“Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”.

Dal Vangelo secondo Giovanni

<<Allora Pipino guardò il vegliardo dritto negli occhi, colto da una strana fierezza ed ancora ferito dal disprezzo di quella voce fredda e sospettosa. “Indubbiamente un così potente sovrano pensa di trovare ben poca utilità in un Hobbit, un Mezzuomo della Contea settentrionale; tuttavia, anche se insufficienti, io desidero offrire i miei servigi, in pagamento del mio debito”. […] (Pipino) “Sei forse in collera con me, Gandalf?”, domandò quando la guida fu uscita chiudendosi alle spalle la porta. “Ho fatto del mio meglio”. “Eccome!”, esclamò Gandalf ridendo improvvisamente; […] “Hai davvero fatto del tuo meglio”, disse lo stregone; […]. “Non so che cosa ti abbia spinto o incapricciato a fare una cosa del genere. Ma comunque è ben fatta. Non l’ho impedita, perché le azioni generose non devono venir frenate da freddi consigli. La tua l’ha commosso e al tempo stesso (permettimi di dirtelo) gli ha fatto piacere. Perlomeno ora sei libero di passeggiare a tuo piacere per Minas Tirith, quando non sei di servizio. […] Ma il Nemico si è già mosso e sta per giocare tutte le sue carte. E le pedine vi potranno assistere da vicino, Peregrino figlio di Paladino, soldato di Gondor. Affila la tua lama!” […] “Non ti nasconderò, Messere Peregrino”, disse Beregond, “che a noi sembri quasi un bambino, un ragazzo di nove estati o giù di lì, eppure hai affrontato pericoli e veduto meraviglie di cui pochi dei nostri vegliardi canuti possono vantarsi.” […] “Ahimè!”, si disse Pipino, “la mia mano par più leggera di una piuma”, ma non parlò. “Se non erro, Gandalf mi ha definito una pedina; forse, ma su di una scacchiera sbagliata”. >>

Il Signore degli Anelli, Il Ritorno del Re, libro I, cap. I, “Minas Tirith”

Minas Tirith “Torre di Guardia”,

anticamente Minas Anor “Torre del Sole”, è una città fortificata di Arda, situata a Gondor sulle pendici del Monte Mindolluin, ultimo baluardo orientale degli uomini contro le forze del male. Accade qualcosa di inaspettato, qualcosa di profondamente stonato qui, tra le bianche mura della fortezza. In questa città, simbolo della forza e della saggezza degli uomini, ascoltiamo parole avventate e così candidamente ingenue, pronunciate da uno degli hobbit più imprevedibili della compagnia, da spiazzarci.

Pipino preso da un istinto irrefrenabile, pronuncia un giuramento solenne.

E allo stesso tempo da parte di Gandalf neanche un cenno, un tic, una tossetta, per distogliere il suo protetto dal compiere questa follia. Anzi, Tolkien ce lo descrive in tutta la sua compostezza, quasi rassegnato alla spontanea bontà dell’hobbit, senza nascondere poi a tu per tu, un po’ di sano timore, ma anche fiducioso che questa scelta dettata dall’amore porterà i suoi frutti. Non che questa decisione lo metta particolarmente a suo agio, un po’ come lo sguardo che potremmo dare noi ad un nostro amico che sceglie qualcosa senza una buona dose di discernimento, senza ponderare tutte le possibilità, andando a percorrere una strada che è distante anni luce dalle nostre decisioni: Gandalf in futuro si lascerà sfuggire un po’ di scetticismo nell’avventatezza di Pipino, definendola quasi sciocca quella decisione, per poi doversene ricredere quando, grazie a questa, una vita verrà salvata. Ma cosa è avvenuto davvero, che ci lascia ancora inquieti? Ciò che ci fa storcere la bocca e biasimare la stoltezza del caro Pipino è una cosa che è radicata in noi fin dall’adolescenza:

il pilastro sicuro e granitico della vocazione.

Quel qualcosa che non sai cosa sia ma hai pressappoco tra i 5 e gli 8 anni per capirlo, quel qualcosa per cui lui ha intagliato perfettamente la tua persona ma non ti ha voluto svelare cosa sia, quel qualcosa che se non lo trovi sei condannato all’infelicità finché morte non te ne separi. Se ci pensate, una crudeltà inaudita da parte sua, non avercela tatuata a pelle ‘sta “rivelazione”, invece di roderci il fegato per tentare di scoprirla, scovarla celata in un assurdo rebus, come una pergamena nascosta chissà dove nei meandri della nostra mente. Sì perché tutti noi cresciamo con la rassicurante convinzione di avere un destino, che non chiamiamo destino perché troppo “mondano”, e allora lo definiamo “vocazione” per dargli quel senso religioso e sacro, ma che in fondo è solo una maschera per adeguare le nostre convinzioni. Perché una sorte insicura fa paura, una vita che non sia già stata scritta e che non sia solo da svelare, ci lascia in balia degli errori, in balia delle mille possibilità che potrebbero cambiare drasticamente la nostra esistenza, senza lasciarci scampo, senza la rassicurazione che una strada sarà meglio di un’altra. Bene, allora vi svelo una cosa terrificante e tremendamente liberatoria allo stesso tempo: la vocazione non esiste! Avete capito bene, no, a lui non interessa assolutamente nulla di cosa scegliamo come lavoro, se costruiamo una famiglia o ci consacriamo, se decidiamo di fuggire alle Hawaii o continuiamo la nostra vita nelle mura del piccolo paesino di montagna. No, non gli importa affatto! E non perché noi non siamo importanti per lui eh, ma perché questo non è il motivo per cui ci ha creati, che è l’unica cosa che a lui sta a cuore. Se ci consacriamo perché ci sentiamo chiamati, o decidiamo di unirci in matrimonio, non è suo principale interesse: perché lui non potrebbe amarci più di quanto non faccia già, e qualsiasi scelta prendiamo, ci accompagnerà, benedirà il nostro giuramento e resterà al nostro fianco.

Lui vuole che noi Amiamo, non solo con la A maiuscola ma anche con tutte le altre lettere.

Se ci innamoriamo o scegliamo lui, sarà dovuto a noi, al nostro carattere, al nostro vissuto, a come sogniamo il nostro futuro, a come le nostre passioni e le nostre doti ci avranno forgiato, a come noi cercheremo di essere sempre più “simili” a lui. Ma qualsiasi strada potremmo prendere, non cambierà la missione per cui siamo nati e neanche il suo amore per noi: ci ama tutti, di un amore unico e speciale, qualsiasi via decidiamo di percorrere. La strada su cui ci troviamo è una nostra scelta, un nostro modo per rispondere alla sua chiamata d’amore e di servizio agli altri, per farci ancora più simili a lui, liberi e pieni della grazia del Padre. E non c’è nessun treno, nessun puzzle da completare, nessuna caccia al tesoro per scovare la nostra “vocazione”. Noi non siamo dei rompicapi da risolvere, non siamo dei cubi di rubik da far quadrare, non siamo dei labirinti da cui uscire: noi siamo la sua dimostrazione di libertà assoluta, dove non c’è un’unica via, dove non ci sono codici da decifrare per trovare la chiave della felicità. Chiesi un giorno al parroco: “Se San Francesco ha donato tutto ciò che aveva, dovremmo essere così radicali anche noi?”, ma la sua risposta mi spiazzò: “Una volta conosciuto Dio, niente avrebbe potuto distogliere lo spirito di Francesco dall’amore per Cristo, dalla strada verso la santità, neanche in mezzo agli agi ed alle ricchezze. Poteva benissimo continuare a fare il mercante seguendo la strada del padre o diventare cavaliere e magari un crociato in Terra Santa, ma non sarebbe cambiato il suo cuore e ciò che sentiva dentro.” Francesco scelse ciò che più di tutto lo avvicinava a quella vita che lui aveva sognato, scelse quel “vieni e seguimi”, ciò che più di tutto lo avvicinava alla sua idea di libertà e felicità, ciò che conciliava la sua vita in risposta a quell’amore che provava verso Dio e quindi verso il prossimo: la sua scelta di povertà, nuova e disarmante. Gesù non dice mai a chi lo incontra “bene, continua così, vai e percorri con passione la tua vocazione” o “bel progetto, hai fatto bene a studiarti anche l’opzione b”, “grandioso il tuo piano, la tua vita ora sarà senza problemi”. No, Gesù stravolge sempre tutto in tre parole: “vieni e seguimi” che spesso accompagna “va’, vendi tutto”. È un incontro che non ci chiede conto delle nostre strategie di vita, delle nostre certezze o dei nostri progetti studiati a tavolino.

C’è solo una missione che conta: “Glorificare il Padre”.

Dio non ci ha voluti per ricoprire un ruolo, non ci ha voluti per farci svolgere un lavoro, non ci ha voluti per far passare il nostro “treno della felicità” da acciuffare in corsa. E sì, questa idea, di primo acchito, spaventa. Ma quando iniziamo a maturarla dentro, quando le lasciamo spazio, ci dona un profondo senso di libertà: siamo nati per amare, nulla più. Amare a modo nostro ma con impegno e dedizione, amare come lui ci ha insegnato, al meglio delle nostre capacità, nei luoghi e nei modi che la nostra anima ci suggerisce. Come è successo a quel ragazzo figlio di mercante, aspirante cavaliere ma come tutti noi destinato unicamente alla santità, all’amore non soltanto cantato nei sonetti o celebrato nelle poesie, ma vissuto al massimo. Siamo liberi di scegliere, liberi di consacrarci e bruciare per lui, liberi magari di legarci indissolubilmente ad una creatura come noi, oppure incontrando mille volti nel luogo di lavoro, o dedicandoci a qualcuno in particolare servendo Cristo nel più piccolo dei fratelli che incontriamo nel nostro cammino. E questo, non è lui ad averlo scelto per noi, non è qualcosa di destinato e modellato esattamente a nostra misura: perché il lavoro perfetto non esiste, la persona perfetta è un’illusione e la vocazione perfetta da azzeccare per “sistemarci” la vita è una menzogna che non potrà mai accadere e che ci porterà solo ad altre mille delusioni. La nostra vita deve rispondere a quell’ “immagine e somiglianza” che ci portiamo dentro, deve rispondere all’Amore vero che non è l’egoismo che tutti i giorni ci viene propinato, non è ricerca di perfezione e voglia di emergere, ma piuttosto libertà nel servire, pienezza nel donarsi, gioia nel mettere a frutto le capacità che abbiamo. Non esistono scelte che ti sistemano per sempre: ogni giorno devi scegliere, sei chiamato a scegliere, anche la persona che hai sposato, anche la consacrazione che hai abbracciato, perché non sceglierla ti rinchiuderà solo in una prigione fatta da una promessa di tanto tempo fa, con la tua testa di tempo fa, con il tuo modo di pensare di quel tempo lì. Invece la vita va decisa tutti i giorni, va riscoperta, va reinterpretata, va vissuta. Non è passato il treno, non era sbagliato il rebus, non importa se credi di non aver finito quel cubo di rubik. Perché non c’è mai stato niente da capire, non c’era niente da decifrare. Il tuo tempo non lo hai sprecato se ancora oggi non hai capito cosa sarà il tuo domani. L’essenziale sarà aver vissuto ogni giorno con la vera ed unica missione che lui ci ha affidato: Amare. Che poi è stato dato alla nostra libertà, e se vogliamo, creatività, definire il “come” realizzare questa missione: in base al nostro carattere, al nostro vissuto, alle nostre doti innate, ai traumi subiti ed ai momenti memorabili, mettendo a frutto le nostre capacità più o meno nascoste. Con le tue qualità avresti potuto intraprendere decine e decine di strade, di lavori, di università, di persone con cui condividere il cammino. E qui sta la libertà: scegliere quale tra queste potrà essere il tuo trampolino per amare al meglio, come lui ci ha insegnato.

Non è un “ama e fà ciò che vuoi” ma piuttosto un “usa la tua libertà per amare al massimo, come ho fatto Io, fino a morire”.

Pipino aveva già una “vocazione”, come la intendono la maggior parte di noi: era membro della Compagnia dell’Anello, aveva i suoi amici e un cammino da percorrere. Eppure il suo carattere, il suo vissuto ed il suo istinto lo portano ad un gesto di amore incondizionato e spontaneo, un inno alla gratuità che lo trasporta in un nuovo mondo, in una nuova vita, con un nuovo modo per dare maggior compimento alla sua esistenza, un significato che abbia la sua firma, una rotta che solo lui avrebbe potuto tracciare, non perché “su misura per lui” ma perché sa di amore vero. Maria, negli ultimi attimi con il suo figlio unigenito, si riscopre nuovamente madre, accettando che la missione, quella che aveva percorso fin ora, la “vocazione sicura”, si sgretolasse e si compisse nuovamente il suo “sì” alla vita, anche nell’età adulta, quando ci aspetteremmo di averla scoperta, la nostra strada. Francesco abbraccia quella povertà estrema e totalizzante, fino alla fine dei suoi giorni, quando poi torna nuovamente a “mettersi a nudo” come all’inizio della sua chiamata, spogliandosi ancora una volta della sua pelle, ammettendo con umiltà di essere tuttora in cammino mentre si scusa con fratello corpo, per aver “abusato” di quella vita di stenti e penitenze. Come quel Pipino che senza saperlo, scegliendo d’istinto una strada a prima vista insensata e dettata solamente dall’amore per Boromir, in una fortezza degli uomini dove lui era decisamente fuori luogo e così le sue caratteristiche che gli giocavano a sfavore, si trasformerà nell’eroe che salverà il Principe Faramir, strappandolo alla morte. Gesù stesso ci insegna “il mio compito è rendere onore a Te, Padre” e questa è l’unica vera vocazione di tutti: a noi la vera avventura, quella di sceglierla ogni giorno.

<<Ma ora improvvisamente gli tornò in mente la sua missione, ed egli corse avanti. In quel momento Gandalf si mosse, disse qualcosa a Ombromanto e si preparò a varcare il Cancello. “Gandalf, Gandalf! […] Qualcosa di terribile può accadere lassù. Sire Denethor mi sembra fuori di sé. Temo che si uccida, ed uccida al tempo stesso Faramir. Non puoi fare qualcosa?”. Gandalf guardò attraverso il Cancello diruto, e già si udiva nei campi il rumore della battaglia. Strinse i pugni. “Devo andare”, disse. “Il Cavaliere Nero è in giro, e porterà rovina su di noi. Non ho tempo”. “Ma Faramir!”, gridò Pipino. “Non è morto, e lo bruceranno vivo se qualcuno non l’impedisce”. “Bruciarlo vivo?”, ripeté Gandalf. “Che storia è questa? Sii rapido!”. “Denethor è andato alle Tombe”, disse Pipino, “e si è portato Faramir, e dice che dobbiamo bruciare tutti, e che lui non vuole aspettare, e ha ordinato di accendere un rogo e di bruciarlo insieme con Faramir. Ha mandato gli uomini in cerca di legna e di olio. Io l’ho detto a Beregond, ma temo che non oserà lasciare il suo posto, poiché è di guardia. E comunque che cosa può fare lui?”. Così dalla bocca di Pipino rotolò fuori la sua storia; poi l’Hobbit si avvicinò a Gandalf, e toccandogli il ginocchio con mano tremante: “Non puoi salvare Faramir?”, gli chiese. “Forse posso”, disse Gandalf; “ma se lo faccio, altri morranno, purtroppo. Ebbene, devo venire, poiché non potrà avere altro aiuto. Ma ciò sarà causa di eventi nefasti e di dolore. Persino nel cuore della nostra fortezza il Nemico possiede armi capaci di colpirci: questa infatti è una conseguenza del suo volere”.>>

Il Signore degli Anelli, Il Ritorno del Re, libro I, cap. VII, “Il Rogo di Denethor”
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