Doc

Ti sparano, vai in coma, ti svegli e sei convinto di essere nel 2008

invece è il 2020 e tutto ciò che credi sia la tua vita non lo è più, da molto tempo. È quello che è successo realmente al dottor Pierdante Piccioni, alla cui storia è ispirato il medical drama andato in onda su Rai1 e terminato ieri sera. Nel telefilm abbiamo un bravissimo (e qualcuna direbbe anche parecchio affascinante) Luca Argentero che interpreta Andrea Fanti, primario di medicina interna, che in seguito ad uno sparo in testa ha un’amnesia retrograda che ha creato un buco nella sua memoria lungo dodici anni. Dodici anni. Già soltanto per metabolizzare questo dato impieghiamo del tempo. In dodici anni di vita accadono così tante cose che è quasi impossibile immaginare di poter proseguire la propria esistenza. Ma la cosa bella è proprio questa.

Andrea ad un certo punto sceglie di reagire al dolore, alla perdita, allo smarrimento e sceglie di vedere quello che gli è accaduto come un’opportunità, anziché come una disgrazia senza soluzione.

Certo che soffre, certo che vorrebbe avere indietro i suoi ricordi e poter riempire tutto il vuoto, ma non può. E a volte è così, a volte non c’è via d’uscita, non c’è soluzione, a volte tutto l’assurdo di una situazione ti si para davanti sfacciato e tu puoi solo abbassare le braccia, rilassare i muscoli del viso e fare un respiro profondo: non puoi fare nulla, non dipende da te, questo è, smetti di lottare contro i mulini a vento e guarda tutto da una nuova prospettiva. Andrea in quei dodici anni ha perso un figlio e questo lutto impronunciabile ha distrutto pezzo dopo pezzo il matrimonio con Agnese, con la quale ha anche un’altra figlia che soffrirà tantissimo per questa dolorosa tragedia familiare.

Quando si sveglia dal coma gli cadono sopra questi due massi, la morte del figlio e la separazione dalla moglie.

I suoi colleghi gli raccontano i fatti ma ciò che è più difficile non è tanto comporre il puzzle quanto vivere tutte le emozioni nuovamente. Il dolore lo travolge come uno tsunami, ne viene investito in pieno e ci vogliono settimane per riuscire a tirare su la testa e prendere una boccata d’aria. Andrea si accorge che la persona che lui era diventato in quei dodici anni è uno sconosciuto, qualcuno che non avrebbe mai creduto di poter diventare. E se è vero che non può far nulla per riavere suo figlio, al contrario non vuole arrendersi e perdere sua moglie. È molto bello riflettere su questo aspetto, infatti spessissimo accade che le separazioni avvengono perché non ci si riconosce più, perché si è cambiati così tanto al punto da non ricordare più perché ci si è scelti. Andrea ricorda bene perché amava (ama) sua moglie e anche lei sembra svegliarsi da un lungo letargo vedendolo così diverso, rivedendo l’uomo che aveva sposato. Poi chiaramente la vita non è un percorso lineare, ci sono saliscendi, traverse, scorciatoie, fossi, burroni, tornanti.

Ma in tutto questo ciò che illumina la storia è il modo di agire, pensare e sentire di Andrea, che diversamente da quell’uomo rigido e freddo che era diventato e che tutti ormai conoscevano, ora guarda al paziente nella sua interezza, non solo una malattia ma una persona con una storia, e sa sostenerlo nei momenti più difficili. Non solo, Andrea aiuta i suoi pazienti a leggere le loro vicende con un occhio provvidenziale, perché può anche essere vero che stamattina sei partito da casa con una pistola in borsa per farla finita perché tua moglie ti ha lasciato e hai perso il lavoro, ma mentre eri sul treno questo è deragliato, sei finito all’ospedale e lì hanno scoperto che hai una malattia, quindi ti curano e non puoi non vedere tutto questo come una seconda possibilità.

“Le istituzioni, la famiglia, la scuola, la Chiesa sempre meno sono in grado di fornire alle persone modelli di comportamento. Un genitore, un nonno oggi riescono a malapena a comunicare qualche norma igienica, dietetica, di sicurezza, lavati i denti, non correre col motorino, non mangiare troppo. La televisione, con tutta la suggestione del colore, la suasività della parola ben tornita, la dolcezza delle musiche di sottofondo, dà modelli di comportamento”. Diceva questo Ettore Bernabei, lui che fu direttore generale della RAI nell’epoca in cui era l’unica emittente televisiva e radiofonica presente in Italia. Era cattolico, membro dell’Opus dei, sposato e padre di otto figli. Nel 1992 fondò la Lux Vide, società di produzione televisiva e cinematografica, dove nel tempo approdarono anche Matilde e Luca Bernabei, due dei suoi figli, e attuali dirigenti.

E “Doc – Nelle tue mani” ha tutto quello di cui parlava Bernabei.

Ci sono attori capaci di raccontare storie vere e di farcele vivere sulla nostra pelle, ci sono dialoghi forti, incisivi, che ispirano e che ti viene voglia di appuntarli per poterli rileggere domani. E le musiche, bellissime, alcune scritte apposta per il telefilm, che ci fanno ricordare un certo medical drama americano che tutti conosciamo. “Doc – Nelle tue mani” è questo: emozioni fortissime, laceranti, vita vera, amori che ci fanno pensare ai nostri perché così reali.

Ed è ovvio che in un periodo così buio come quello che stiamo vivendo, dove la morte ci è diventata molto più familiare o perlomeno lo è per molti di noi, uno dei più bei monologhi è quello che pronuncia Andrea al termine di un turno molto faticoso:

“Ci siamo noi, e c’è quella grandissima stronza della morte.

Ci sono giornate come questa dove sembra inarrestabile, lo so. Però non è così perchè ci siamo noi. Tutti i libri che abbiamo letto, tutto lo studio, la pratica, la teoria, è servito tutto a guardarla in faccia e a dirle NON OGGI. Non importa quanto siano disperate le condizioni di un paziente. NON OGGI. Non importa se neanche i pazienti ci credono più. NON OGGI. Qualcuno di noi cederà, altri reggeranno bene alla pressione ma non importa. Noi oggi dobbiamo aiutarci. Qualunque cosa si debba fare, qualunque sia la vita che aspetterà i pazienti da oggi in poi voi dovete ricordarvi sempre perchè siamo qui. Per metterci in mezzo tra i pazienti e la stronza. Questo è essere medici.”

Capito cosa dice? Qualunque sia la vita che aspetterà i pazienti da oggi in poi.

Non parla di qualità della vita, di scelte, non dice che a volte non ne vale la pena, perché ne vale sempre la pena, perché la vita anche quando sembra impossibile è capace di regalarti attimi di felicità che non vorresti perderti mai. Noi siamo in quattro e secondo tutte e quattro la televisione potrebbe pure essere sostituita da un bel quadro con un campo di girasoli, se non fungesse da supporto per vedere serie TV e film. Ecco che ci pare vitale parlare di qualcosa che si differenzia dal piattume omologato a cui assistiamo ogni giorno, zero ideologia e zero propaganda al pensiero unico. Quindi, se non l’avete ancora fatto rimediate subito e andatevi a vedere i sedici episodi, durano circa un’ora ciascuno perciò se vi munite di fazzoletti, gelato e acqua direi che in una giornata dovreste riuscirci! Buona visione!

Immagine da Wikipedia

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