Quanto costa essere alla moda

L’industria fashion riguarda tutti noi, poveri, ricchi, modaioli o bancarelle-addicted. Almeno per l’impatto economico, sociale ed ecologico sulle nostre vite, che è di dimensioni inimmaginabili, tutti noi dovremmo cercare di informarci.
Giusto un paio di numeri per fare il punto sull’industria fashion:
1. vale globalmente 17 trilioni di dollari americani,
2. è la seconda al mondo per inquinamento, seconda solo all’indutria del petrolio,
3. le più grandi aziende manifatturiere sono in Bangladesh e Tailandia, dove l’85% dei lavoratori sono donne,
4. in media un americano getta circa 82 sterline di tessuto l’anno, o se preferite, gli Stati Uniti producono ogni anno 11 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, la maggior parte dei quali non riciclati propriamente,
5. un vestito può impiegare 40 anni per decomporsi,
6. invischiati nel mondo della moda mondiale sono almeno 1 persona su 6. Non male, eh?

E dopo i numeri passiamo ai fatti, ma non parliamo solo di tessitura e confezionamento, partiamo dalla base, dove tutto prende
forma, l’industria del cotone. La stra grande maggioranza del cotone è coltivato in India, nella zona di Punjab, ed è fornito dalla Monsanto: la più grande multinazionale di semi, sostanze chimiche e farmaceutiche. In India possiede l’intero mercato dei semi di cotone geneticamente modificati.
Vi spiegherò più avanti la lungimiranza di questa scelta.

Visto che giustamente il seme è stato geneticamente modificato per evitare alcuni tipi di parassiti, la natura ha fatto il suo lavoro, facendo comparire altre specie di parassiti.
Così i contadini che avevano investito sul costosissimo seme miracoloso che ha debellato un certo parassita, ora si trovano ad indebitarsi per nuovissimi pesticidi , più costosi dei precedenti, per nuovi parassiti. Tutto questo per rimanere al passo con il nuovo fabbisogno dell’industria, che non può certo aspettare che il contadino coltivi con metodi naturali e più tecnologici.
Per la Monsanto nessun mercato migliore di questo: semi costosi, fertilizzanti costosi e medicine per gli effetti collaterali. Sì perché la natura non è proprio d’accordo: oltre l’impatto ecologico e l’inquinamento chimico non sono tardate a comparire in tutti i villaggi aumenti spropositati di cancro, malattie mentali ed handicap fisici.
Ma tranquilli, la nostra super multinazionale vende ai contadini anche le medicine: siamo a posto!

Ricordiamo inoltre che la Monsanto declina ogni forma di responsabilità sull’impatto ecologico delle sostanze nocive e sulla salute di queste persone legato all’utilizzo dei loro prodotti.
Ciò non impatta solo la natura, l’ecosistema e le malattie di tutte le zone limitrofe perché la spirale di morte è così stringente che un nuovo fenomeno è nato in quelle terre: il suicidio da avvelenamento con pesticidi.
Ciò che nessuno racconta infatti è che ogni 30 minuti un contadino esasperato dai debiti decide di togliersi la vita nei campi bevendo gli stessi pesticidi che ha comprato per il suo terreno.
In India negli ultimi 16 anni i suicidi degli agricoltori sono stati 250.000.
Perché quando non riesci più a pagare, quello che ti rimane è il tuo terreno e vedersi strappare anche quello è più nocivo degli stessi pesticidi.
Nessuno vende più semi non geneticamente modificati, le coltivazioni con seme modificato sono circa il 95% e molti sono costretti a comprare semi non modificati pagando dalle 3 alle 8 volte tanto dal mercato nero, per non cadere nella trappola dei pesticidi.
Ma il prezzo del cotone, nonostante l’aumento dei costi per i contadini, non è salito abbastanza rispetto ai costi.

Gli Sprechi

Liberiamoci di loro…è una soluzione?
È semplice liberarci di un vestito, lo buttiamo e fine. E invece no.
Gli indumenti nel decomporsi rilasciano gas metano, tinture e sostanze chimiche contaminando il suolo e le acque.
Per non parlare delle scarpe che possono impiegare fino a 1.000 anni per decomporsi del tutto.
Direte voi: possiamo donarlo in beneficenza! Ma anche questa non è una soluzione perché in media solo il 10% dei vestiti donati viene poi realmente venduto o donato in negozi di beneficenza, mentre la grande maggioranza viene gettato o portato nei paesi poveri. Penserete che almeno questa sia una parte positiva. E invece no.
I vestiti che portiamo ai Paesi sotto sviluppati saturano tutto il loro fabbisogno tessile portando alla chiusura di quasi tutte le compagnie tessili locali, mentre quelle che resistono e che restano in piedi devono adeguarsi al mercato del fashion mondiale, lavorando a produzioni low cost per l’export.

Noi

Noi, i consumatori bombardati da pubblicità, riviste, messaggi subliminali e nuovi ideali da percorrere.

È una ricetta americana, antica come l’apple pie: usare le tue imperfezioni contro di te, farti credere che sei sbagliato e hai bisogno di loro, che sono qui apposta per risolvere ogni tuo problema.
Earnest Elmo Calkins sostiene che il consumismo gira tutto intorno al far arrivare le persone a considerare le cose come usa e getta.
Spiega lui: “le basi dell’ideologia consumistica sono semplici: essere = comprare”.
Per essere bello ti serve questo o quel prodotto, per essere presa sul serio devi avere questo o quello stile, se sei un uomo di affari non puoi non avere questa macchina, per stare bene con te stessa questo è il trucco giusto.
Il consumismo è riuscito a scambiare prodotti che usiamo in beni che consumiamo e poi gettiamo.
Da qui il materialismo basato sull’idea che più cose compri, più sarai felice.
Ed è ovvio che la crescita del materialismo non corrisponde all’aumento della felicità ma piuttosto all’aumento dell’insoddisfazione e di tutte le patologie psicologiche connesse.

Comprare=compensare

Dal fast food al fast fashion il passo è breve!
Il fast fashion ha cambiato il nostro modo di concepire il mondo della moda. Straordinariamente il prezzo degli abiti diminuisce mentre il costo della vita aumenta.
Ecco qui che si svela la vera natura dello spasmodico bisogno di comprare: la compensazione!
Una sorta di nuova consolazione nella vita delle persone, come dice Guido Brera, investment manager.

Il contentino che vi vuol far credere che stiamo meglio di quanto non sia nella realtà. Molte famiglie arrancano per arrivare a fine mese, prudentemente risparmiano, ma quel paio di jeans è solo a 7€ e l’idea di risparmio crolla.

Come quel fast food che ci dà l’illusione di poter andare a cena fuori tutte le volte che vogliamo: sì, ma in fondo siamo sempre noi a pagarne, alla fine, il vero prezzo.

 

Dati e fatti riportati nell’articolo sono contenuti in “The true cost”, un documentario che consigliamo caldamente di vedere, perché le immagini, sono molto più dure delle parole e delle statistiche. Difficilmente si resta indifferenti e si continua a consumare fashion come se non avessimo niente da metterci dopo aver visto quanto sangue e quante storie di tristezza ci sono dietro le nostre storie di benessere.

 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *