QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #40 BACCHE
“Un saluto ai concorrenti finali dei settantaquattresimi Hunger Games. La modifica precedente è stata revocata. Un esame più accurato del regolamento ha rivelato che ci può essere soltanto un vincitore” dice. “Possa la buona sorte essere a vostro favore”. Si sente un lieve fruscio e poi più niente. Guardo Peeta incredula, mentre la verità si fa strada nella mia mente. Non hanno mai avuto l’intenzione di lasciarci vivere entrambi. È stato tutto architettato dagli Strateghi per garantire la prova di forza più sensazionale di tutti i tempi. E io, come una stupida, ci ho creduto. “Se ci pensi, non è poi tanto sorprendente” dice lui in tono sommesso. Lo guardo mentre si alza faticosamente in piedi. Poi viene verso di me, come al rallentatore, la sua mano sta estraendo il coltello dalla cintura… Prima ancora di rendermi conto di quello che sto facendo, il mio arco è armato, con la freccia puntata dritta al suo cuore. Peeta inarca le sopracciglia e vedo che il coltello ha già lasciato la sua mano e vola verso il lago, dove cade in acqua con un tonfo. Lascio cadere le mie armi e arretro di un passo, con la faccia in fiamme per quella che può soltanto essere vergogna. “No” mi incita. “Fallo”. Peeta zoppica verso di me e mi ricaccia le armi in mano. “Non posso” protesto. “Non lo farò”. […] Sappiamo entrambi che devono avere un vincitore. Sì, devono avere un vincitore. Senza un vincitore, l’intera faccenda esploderebbe in faccia agli Strateghi. Avrebbero tradito le aspettative di Capitol City. Potrebbero persino essere giustiziati, lentamente e dolorosamente, e le telecamere trasmetterebbero l’evento su ogni schermo del paese. Se Peeta e io dovessimo morire entrambi, o se loro lo pensassero… Le mie dita armeggiano con il sacchetto che ho alla cintura, sganciandolo. Peeta lo vede e la sua mano afferra il mio polso. “No, non te lo permetterò”. “Fidati di me” sussurro. Sostiene il mio sguardo per un lungo momento, poi mi lascia andare. Allento il sacchetto e verso un po’ di bacche nel palmo della sua mano. Poi riempio il mio. “Al tre?”. Peeta si china e mi bacia una volta, molto delicatamente. “Al tre” dice. Siamo in piedi, con le schiene premute l’una contro l’altra, le mani libere intrecciate saldamente. “Mostrale. Voglio che tutti vedano” dice lui. Apro le dita e le bacche scure brillano al sole. Do alla mano di Peeta un’ultima stretta come segnale, come addio, e iniziamo a contare. “Uno”. Forse mi sbaglio. “Due”. Forse a loro non importa se moriamo entrambi. “Tre!”. È troppo tardi per cambiare idea. Mi porto la mano alla bocca, dando un ultimo sguardo al mondo. Le bacche sono appena passate attraverso le mie labbra che le trombe iniziano a squillare. La voce concitata di Claudius Templesmith urla sovrastandole. “Fermi! Fermi! Signore e signori, sono lieto di presentarvi i vincitori dei Settantaquattresimi Hunger Games, Katniss Everdeen e Peeta Mellark! Ecco a voi… i tributi del Distretto 12”.
Hunger Games, libro I, capitolo 25
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”.
Matteo 16: 24-25
Bacche, amare come la morte.
Come si fa a mandarla giù, Signore?
Come si fa ad ingoiare questo destino che ci libera da una vita così dura, eppure così dolce?
Come si fa a vedere oltre quel velo nero di vuoto e nulla, che ci sovrasta e ci sembra la fine?
Come si fa ad non avere paura?
Katniss vedere il ragazzo che ama avvicinarsi con il pugnale e l’istinto ha il sopravvento: è pronta a resistere, anche a costo di far fuori chi sta imparando ad amare.
Poi lui getta il pugnale, chiede di scoccare la freccia, e la vergogna la sovrasta.
Chi non avrebbe fatto lo stesso?
Chi istintivamente, vedendo sopraggiungere la morte, non lotterebbe?
Vorrei essere diversa da Katniss, vorrei essere coraggioso come Peeta, amare come ama lui.
Incontrare la morte con serenità perché c’è vita, anche nel donare la propria esistenza per amore: ce lo hai insegnato Tu, Tu che ti sei lasciato torturare, che non hai preso scorciatoie ma ti sei trascinato per ore nell’agonia, che sei arrivato fino alla fine, fino all’ultimo respiro.
Eppure Kat, presa dalla vergogna, sprofonda in quell’ingiustizia da bestie, da sopravvivenza, in quella carneficina che tiene incollato il pubblico.
Kat lo capisce: anche la morte è meno vile del diventare assassina, dell’ammazzare chi si ama.
Così tira fuori le bacche, stringe la mano a Peeta: “Non ci avranno mai, non ci trasformeranno mai”, sembra dirgli, “Peeta ora capisco le tue parole su quel tetto; non ci cambieranno, restaremo noi stessi anche qui!”.
Peeta aveva trovato il coraggio di morire perché in cuor suo ha saputo rispondere all’unica domanda che fa la differenza: per chi morire.
Così anche Katniss, quando si rende conto in cosa quell’arena l’ha trasformata, decide che c’è qualcuno più importante per cui morire: Peeta, la sua parte buona, la sua dignità.
E la morte sì, continua a far paura, ma non ha più il veleno che ci obnubila il pensiero: siamo lucidi, siamo presenti e non animali in fuga, siamo vivi.
E mentre non ci verrà chiesto di dare la vita per chi amiamo, la domanda rimarrà comunque la stessa: per chi moriremo, noi?
Forse è quell’uomo inchiodato alla croce, l’unica risposta degna, l’unico che davvero ci ha amati fino all’ultimo, l’unico a cui vale la pena concedere la nostra fiducia, consegnargli la nostra vita.
Forse la speranza in Lui ci farà ritrovare il senso della morte, come la fiducia di Kat che solo davanti alla morte trova finalmente la soluzione al discorso di Peeta su quel tetto.
L’unico Dio che spira tra i dolori, è la sola risposta che posso dare alla morte.
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