QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #37 THRESH

Poi Thresh si volta verso di me, con il sasso alzato. So che non serve a niente fuggire. E il mio arco è vuoto, perché l’ultima freccia incoccata è partita in direzione di Clove. Sono intrappolata nello sguardo penetrante dei suoi strani occhi dorati. “Cosa diceva? Su Rue che era tua alleata?”. “Io…noi..abbiamo fatto squadra. E fatto saltare le provviste. Ho tentato di salvarla, davvero. Ma lui è arrivato prima. Il ragazzo del Distretto 1” dico. Forse, se sa che ho aiutato Rue, non mi riserverà una fine lenta e sadica. “E tu l’hai ucciso?” domanda. “Sì, l’ho ucciso. E ho coperto lei di fiori” rispondo. “Ho cantato finché non si è addormentata”. Mi vengono le lacrime agli occhi. La tensione e la forza di lottare mi abbandonano, a quel ricordo. E sono sopraffatta dal pensiero di Rue, dal dolore alla testa e dalla paura di Thresh e dai lamenti della ragazza che sta morendo poco più in là. “Addormentata?” chiede Thresh con voce roca. “Morta. Ho cantato finché non è morta” dico io. “Il tuo distretto…mi ha mandato del pane”. La mia mano si solleva ma non per prendere una freccia, che non raggiungerei mai. Solo per asciugarmi il naso. “Fallo in fretta, d’accordo, Thresh?”. Emozioni contrastanti gli attraversano il viso. Abbassa il sasso e mi punta il dito contro, quasi mi accusasse. “Per questa volta ti lascio andare. Per la ragazzina. Tu ed io siamo pari, allora. Non siamo più in debito. Capisci?”. Annuisco, perché capisco bene cosa significa essere in debito. E odiare di esserlo. Capisco che se Thresh vince, dovrà tornare e affrontare un distretto che ha già infranto le regole per ringraziarmi, e anche lui sta infrangendo le regole per ringraziarmi.

Hunger Games, libro I, capitolo 21


Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.

Luca 22:49-51


Thresh ha la sua chance di avvicinarsi alla vittoria, di uccidere Katniss, eppure le usa misericordia.
Non perché è buono, ma perché lei ne aveva avuta con la sua compagna di distretto.
Kat non vince su Thresh perchè forte, perchè scaltra, perchè ha il suo amato arco, perché è un’abile cacciatrice: Kat è salva perché gli viene usata pietà, accordata in virtù della stessa clemenza che lei ha avuto con chi era più piccolo, più bisogno di lei, indifeso davanti alle sue armi.
Kat non ha vinto su Rue, e nemmeno su Thresh: è la misericordia che gioca la sua partita, salvandole la vita.
Certo Thresh ha un debito da saldare, ma in fondo, non era lui il vero debitore, e l’arena non è certo un posto per gentiluomini.
Così dietro questa sistemazione di conti, si trova solo lo scambio reciproco di pietà.
Magari sì, elargita con fatica e non con un gesto spontaneo, magari forzata e calcolata strategicamente: eppure anche tra potenziali assassini è la misericordia ad avere la meglio.

Come si fa a reagire così?

Come si fa a non far valere i proprio diritti quando tutto ci dice che siamo nel giusto, che così sono le regole, che ci spetta?

Non posso dire di essere un esempio in materia: non sono mai riuscita a contare fino a 10 nella mia vita, a mostrare pietà nel momento cruciale. ù

Io preferisco il sacrificio: attaccare con le mie ragioni.

Lo spargimento di sangue lanciando le mie frecce di giustizia, godermi il momento mentre si conficcano sull’anima di chi mi ha fatto un torto.
Queste sono le mie guerre: le battaglie contro il torto, i campi di combattimento dove non è ammessa ritirata ma l’unico risultato possibile è vincere ad ogni costo, dove devo farmi valere e trionfare con il ragionamento.
Queste lotte da “paladini della giustizia” non si macchiano di sangue reale ma fanno sanguinare il cuore di chi abbiamo davanti, mentre inferiamo e ci scaraventiamo sulla vittima. Io non so fermarmi come Thresh, io se ho ragione ti sovrasto, punto.
Non sono affatto come Thresh perchè non ho mai esitato, mai fermata in tempo, mai ascoltato le scuse di chi avevo davanti.
Non mi sono mai messa in discussione, non ci sono mai state “emozioni contrastanti”, non c’è mai stato il minimo dubbio.
No, io quando mi infervoro non ho più sguardo ne udito: sento le parole, le giustificazioni, ma non le ascolto davvero; vedo la difficoltà nell’altro, la tristezza, l’amarezza.

Ma in quel momento ho già incoccato la freccia dell’ “Io” e non esito mai a scagliarla.
Come sono lontana dalla misericordia che mi viene chiesta, lei che è lontana anni luce dall’incoccare la freccia: è abbassare l’arco, capire, riporre ogni arma nella faretra.

E mentre fino ad ora pensavo che il posto più tremendo fosse l’arena e fosse impensabile trovaci qualche parvenza di pietà, ora mi accorgo che non erano gli Hunger Games l’inferno.

No, quello è dentro di me in quei momenti di follia, di annebbiamento totale, quando lascio al male prendere il mio posto nella mia vita.
Devo imparare ancora a trovare in quel buio la misericordia, in fondo al mio rancore, alla mia volontà di impormi, al mio voler essere ascoltata, alla presunzione che le cose vadano fatte come dico io, alla mia egemonia che non tollera deviazioni, al mio comando che non permette errori.
Questo è il luogo più oscuro dove devo ritrovare la misericordia: la mia arena personale dove far risuonare ancora oggi le sue parole << Misericordia io voglio, non sacrifici >> (Osea 6,6).

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