QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #24 CATACOMBE
Dopo la fine del programma, le arene diventano siti storici. I residenti della capitale li visitano spesso, ci vanno in vacanza. Ci resti un mese, rivedi le immagini del reality, fai il tour delle catacombe, vai a vedere i posti dove sono morti i tributi. Puoi addirittura prendere parte a una ricostruzione storica. Dicono che il cibo sia eccellente.
Hunger Games, libro I, capitolo 10
Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto
Luca 16,10
Quando passo davanti al Colosseo,
sento la necessità di fermarmi, di rallentare il respiro, di permettere alla mia mente di distaccarsi per un attimo dalla realtà e concentrare lì tutti i pensieri: fratelli, sorelle cristiane che hanno guardato le stesse pietre, ma con un brivido più profondo che ne scuoteva il corpo. Io vedo bellezza, qualcun altro ha visto morte.
E la memoria rincorre le storie dei martiri: tra chi ha infuso coraggio e chi è stato strumento di miracolo per la conversione di molti.
Il pensiero si staglia sempre sulla figura di Santa Tecla, la santa “calamita” che ogni volta mi attrae senza che io possa in alcun modo resistere: lei che contempla il cielo, mentre i leoni si accucciano ai suoi piedi, chi addormentandosi, chi leccandole i sandali, come un gattino che fa le fusa e aspetta la sua razione di coccole quotidiana.
Quanta potenza disarmante, quanto coraggio di fronte alle belve e quanta fede.
Sono storie che mi infondono una profonda riconoscenza:
ogni volta mi scioccano, ogni volta mi mettono in discussione ogni volta hanno qualcosa da insegnarmi.
Eppure non sono storie felici: tutte con la medesima fine, tutte permesse da Dio perché io oggi fossi qui a ricordale, con la mia piccola fede e la grande libertà occidentale.
Fisso la croce all’entrata del Colosseo pensando ad ogni morte, non solo cristiana, avvenuta tra quelle mura che oggi tutto il mondo ci invidia: un luogo di morte diventato un luogo di vita.
E come non pensare alle catacombe?
Raccontate come “nascondigli” cristiani, riscoperte da poco per la loro vera natura di accoglienza: non luoghi di nascondimento ma di aperto ritrovo per i cristiani dell’epoca, come ci ha spiegato una guida esperta.
Sì perché i romani, pur sapendo benissimo fossero frequentate da cristiani, preferivano starne alla larga per la profonda superstizione che nutrivano nei confronti dei corpi dei defunti.
E nel calarmi tra i vicoli ora illuminati, mi sembra di ricorrere ombre di ragazzini cristiani convinti, fervorosi, frequentatori di tombe ma senza paure, che dovevano fare i conti ogni girono con la possibilità di morire senza che questo potesse scalfire la loro fede.
Ed è questa la Chiesa che mi è stata lasciata in eredità,
queste le premesse e le radici di ciò che oggi ogni credente chiama “madre“: perché una mamma ama da-morire, senza esitazioni, senza mezze misure, fin dento le viscere, fino alla fine del proprio esistere, fino a dare la vita.
Non sempre sono all’altezza di questo retaggio, o meglio, non lo sono mai stata. Non sempre rendo giustizia a quei martiri che sì, hanno pagato con il sangue la loro fedeltà, ma hanno soprattutto concimato perché io potessi crescere in un terreno fertile e godere dei loro frutti.
Così passo spesso dalla martire della mia città, uccisa al tempo di Roma grande-impero: passo da lei e chiedo coraggio, responsabilità, fedeltà, amore sconfinato che arrivi alla “follia” di donare la vita per servirlo.
E tutto ciò che sento è piccolezza, inconsistenza, debolezza e paura.
Ma possiamo anche noi, come loro, scegliere la nostra parte: invece di rimanere “sconfitti”, invece di lasciarci schiacciare dall’inadeguatezza e dalla poca fede, scegliere di esserci ora.
Di pensare a ciò che fu “ieri“, davanti alla superficialità di oggi; di impegnarci ad essere fedeli, anche nei gesti e non solo nelle parole.
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