OssitoCHIPS – Parlare di morte ai bambini

Quando ero piccola

almeno una volta al mese si andava al cimitero o, meglio, al camposanto. Seriamente, era uno dei momenti che preferivo, sia perché ci andavamo tutti e tre insieme, io, mamma e papà, sia perché era proprio un bel posto, ai miei occhi da bambina. Mi piaceva tanto il prato verde con l’erba sempre curata, mi piaceva gironzolare liberamente tra le pareti di loculi e le tombe a terra dove c’erano scritti nomi di persone morte nel secolo precedente, cosa per me molto affascinante. E poi mi piaceva il rituale che si ripeteva ad ogni visita: si entrava, ci si faceva il segno della croce e ci si dirigeva davanti al loculo di nonno. A quel punto mamma controllava lo stato dei fiori, se ce n’era qualcuno buono da salvare lo si teneva altrimenti si buttava tutto nel grande bidone nero all’ingresso, si sciacquava bene bene il vaso e lo si riempiva d’acqua, dopodiché si infilavano dentro i fiori freschi, con un’attenzione tale da stupirmi ogni volta. Quando i lavori di pulizia e sistemazione dei fiori erano terminati si rimaneva qualche minuto a pregare davanti alla tomba e poi si passava al defunto successivo. Si andava in ordine di parentela, veniva automatico a mia madre, quasi a non voler dispiacere nessuno dei cari che non c’erano più.

Di morte a casa mia si parlava come si parlava delle patate da raccogliere.

Non è mai stato un tabù, i miei mi portavano con loro ai funerali e a visitare i defunti nelle camere mortuarie. Mio padre nel pregare non si dimenticava mai di un “Eterno riposo” per tutti i parenti defunti. Eppure, nonostante tutto questo allenamento, tutta questa preparazione, quando mia figlia mi chiese dove erano finiti i genitori di Elsa dopo il naufragio, mi sono ritrovata impreparata. Perché i bambini vogliono sapere come funzionano le cose, non si accontentano di spiegazioni approssimative, ciancicate e tantomeno di discorsi filosofico-fumosi: vogliono la verità. Non si capisce bene perché nasciamo così affamati di verità, di totalità, di pienezza, proprio come Dio ci ha fatti, e poi piano piano ci svuotiamo e preferiamo non pensare a tutti quegli aspetti della vita che ci mettono con le spalle contro il muro a guardare negli occhi la verità: vedi la malattia, vedi la morte.

I bambini, se vi è capitato di conoscerne, sanno affrontare i grandi temi con più attenzione e serenità di noi adulti, loro vogliono sapere tutto perché è così che imparano a vivere.

È che se in fondo non si crede al paradiso, e di conseguenza all’inferno ed al purgatorio, se non ci si crede davvero, ecco che emerge tutta la nostra paura, ecco che la morte è la fine di tutto ed ecco che la si depenna dai grandi temi dell’educazione. Ma purtroppo anche se noi chiudiamo gli occhi, la morte ci sarà lo stesso e quando verrà a toccarci da vicino e i nostri figli la vedranno portarsi via un nonno o un amico di famiglia o uno zio, a loro avremo insegnato la paura, il silenzio, la negazione. Essere genitori, essere adulti, hanno molto a che fare con l’essere cristiani: se si è di Cristo non si teme la morte perché essa è solo un passaggio, se si è di Cristo si teme solo aver vissuto come morti. Ai nostri figli parliamo della morte, dei nonni che non hanno conosciuto e per i quali preghiamo affinché siano in paradiso, portiamoli con noi ai funerali, al cimitero. Perché noi non ce ne renderemo conto, ma ogni cosa che facciamo con loro è qualcosa che gli lasciamo in eredità, è come un baule dal quale da grandi potranno pescare ricordi, esperienze, insegnamenti e gesti di fede.

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