OssitoCHIPS – Affrontare il passato per educare il futuro

Sono nata trent’anni fa

(più o meno) e sono stata concepita dopo ben dodici anni dal secondo figlio, insomma i miei ci hanno pensato davvero tanto prima di fare un terzo figlio, oppure non veniva, non lo so perché di certe cose non si parlava. Sono nata in una famiglia dove c’era questa nonna anziana che aveva cresciuto sette figli, di cui quattro non suoi ma della prima moglie che era morta in seguito al parto. Sono cresciuta vedendo quanto soffrisse mia madre per il comportamento duro e severo di questa suocera che certamente non aveva imparato la dolcezza dalla vita, basti pensare al marito che sopravvissuto ad una guerra era poi morto ancora giovane e a tutto il peso della famiglia ricaduto sulle sue spalle. Una realtà contadina come tante altre, campi da coltivare, animali da allevare, tanto lavoro e poche smancerie. Una famiglia cristiana fin dalle origini, dove Dio era al centro e il peccato era disprezzato in ogni sua forma.

Quando arrivai io mia mamma non era più una ragazzina, tutt’altro, e anche il suo modo di essere madre certamente era cambiato, probabilmente si sentiva più forte come donna e mi raccontó spesso come ad esempio io non sperimentai molte delle pratiche del tempo o di quando erano nati i miei due fratelli, come l’uso di tenere i bambini fasciati e immobili a lungo nel lettino, oppure farli piangere finché non si fossero addormentati da soli, senza tenerli troppo in braccio perché altrimenti prendevano il vizio. Quale vizio poi non si sa, ma questo è un altro discorso! Mia madre mi raccontó decine di volte di come un giorno dovette lasciare mio fratello di poche settimane nel lettino per uscire per andare a lavorare nei campi. Scendendo le scale lo sentiva piangere ma sua suocera la tranquillizzó dicendole: “Non ti preoccupare, tanto prima o poi smette”, ma lui non smise e quando mia madre tornò a casa lo trovò ancora piangente e disperato.

Ci sarebbe da parlare di così tante cose, del ruolo della suocera padrona di casa, della disciplina nera che ha allevato persone insicure che a loro volta utilizzano modalità discutibili nella relazione con l’altro, incapaci di comprendere i sentimenti e le emozioni di chi si trovano di fronte. Tuttavia non essendo una pedagogista vi racconto solo la mia storia. Mia madre non aveva letto nulla in tema di educazione, non aveva certamente approfondito gli stili di attaccamento di Bowlby né aveva idea di chi fosse costui, ma seguì il suo istinto. Io non fui mai lasciata da sola a piangere, venni allattata fino ai tre anni suonati e dormii in camera con i miei finché non fui pronta a traslocare nella mia cameretta dall’altra parte della casa. Mia madre non alzó mai le mani su di me, neanche facendo il gesto, e onestamente non ricordo una sola volta in cui il suo tono di voce fu cattivo nei miei confronti.

Quando sono diventata mamma tutto il mio passato, la mia infanzia, il mio vissuto si è risvegliato e rovesciato come un fiume in piena addosso a me.

Ogni giorno mi rendo conto che è un continuo lottare contro modelli comportamentali appresi così da poterli scardinare e mettere in atto una relazione rispettosa nei confronti di mia figlia che è innanzitutto una persona e come tale va trattata. Ecco che il mio essere cristiana si è incontrato con questa esigenza in modo del tutto naturale, ma credo che spesso invece ci si interroghi troppo poco sull’educazione in ambito cattolico. È come se da una parte fossimo attratti da un tempo in cui i valori cristiani erano certamente più forti, e quindi in una sorta di nostalgico “era meglio quando era peggio” ricadiamo nel romantico pensiero per cui: Dio mi ha affidato questi figli quindi io sono il padre/la madre migliore che loro possano avere. Ecco che questo si rivela un grande tranello, una bugia, una scusa, un sentimentalismo che invece nulla ha a che fare né con Dio né con l’essere genitori.

Dovremmo invece pensare che possiamo essere sempre migliori, sempre più competenti, sempre più capaci di controllare i nostri comportamenti sbagliati, di farci piccoli, di uccidere un pezzo di noi stessi per far spazio all’altro, a quel bambino che ha bisogno di cura, amore e rispetto.

Io non credo che era meglio quando era peggio, affatto, e credo invece che oggi si stiano aprendo dei vasi di pandora rimasti chiusi per troppo tempo e che soprattutto riguardo all’infanzia ci sia un risveglio delle coscienze di cui dovremmo rallegrarci e partecipare noi per primi, invece di aver paura. Sì paura. Perché spesso queste proposte educative “nuove”, rispettose del bambino, provengono da ambienti che poi contemporaneamente partoriscono altre ideologie ben poco rispettose dell’uomo. Ma perché questo ci scandalizza? L’uomo è assolutamente imperfetto e intriso di peccato, ogni uomo, non solo chi pubblicamente si schiera a favore di aborto et similia, e il fatto che il bene conviva col male non dovrebbe farci ignorare quella parte di bene. Invece dovremmo essere più svelti, più scaltri e riproporre queste buone idee. È vero che contemporaneamente la società è sempre più satura dei fumi di satana ma questo non deve stupirci, dobbiamo essere forti e mostrare che Cristo ci dà un’arma in più, che è la speranza. Abbiamo bisogno di essere consapevoli che il peccato si insinua in noi stessi soprattutto attraverso ciò che abbiamo appreso. Se si è cresciuti in un ambiente familiare in cui il senso di colpa, l’offesa verbale e le mani venivano utilizzati come metodi educativi sarà più facile reiterare quello stesso modello genitoriale, ma in quanto cristiani dobbiamo essere consapevoli che non è solo quello ma è qualcosa di più, è il peccato, e non fa del male solo alla persona ma anche alla sua e alla nostra anima.

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