Per tutte le nostre Molokai, abbiamo bisogno di un San Damiano de Veuster

Molokai non è molto lontana da qui.

Molokai è lontana geograficamente: questa piccola isola lunga 65 km e larga appena 12 fa parte di quelle che nel 1865 erano ancora le “Isole Sandwich”, le odierne Hawaii, e per la sua posizione centrale nell’arcipelago e la presenza di una sorta di penisola, naturalmente separata dal resto del territorio e ben circoscritta, fu scelta come colonia (o forse è meglio chiamarlo “ghetto”) per isolare tutti i malati di una dilagante epidemia di lebbra. Nessuno usciva vivo da Molokai, una volta arrivato.

Molokai è lontana temporalmente: San Damiano de Veuster, missionario della Congregazione dei Sacri Cuori ci arriva, il 10 marzo 1873 come parroco volontario della comunità di lebbrosi (il vescovo non voleva costringere nessuno ad andare e fino a quel momento nessun sacerdote era stato in pianta stabile a Molokai), sceglie di dedicare loro tutta la sua vita e isolarsi insieme ai malati. Nemmeno lui uscirà vivo da Molokai: morirà di lebbra e la sua prima tomba sarà proprio ai piedi dell’albero dove dormì all’addiaccio la prima notte sull’isola.

Quando Padre Damien, come veniva chiamato, arriva, non c’è acqua corrente nella colonia, non c’è un cimitero, solo una rupe da cui gettare i cadaveri, non ci sono case, non c’è speranza. Padre Damien trova orfani, moribondi abbandonati a loro stessi per strada, rifugi di fortuna, alcolismo e promiscuità, disperazione e abbandono. Non c’è dignità a Molokai: quella che non ha tolto ancora la lebbra coi suoi odori sgradevoli, le piaghe e le mutilazioni, l’hanno tolta gli uomini confinando i malati lontano dagli sguardi e dal cuore, come “non persone” che aspettano solo la fine. Padre Damien, arrivato nelle Hawaii come missionario con l’obiettivo di convertire quanta più gente possibile (siamo sempre nella mentalità di fine 800) cosa che, tra l’altro, nonostante fu spesso mira di inquietanti riti woodoo da parte degli abitanti dell’isola di Oahu, sua prima parrocchia, gli riesce molto bene, scopre nella sofferenza che è quando non si può contare sulle proprie forze, anche fisiche, che si sperimenta la grandezza vera, quella della Provvidenza che fece arrivare aiuti economici per Molokai proprio da quei Protestanti con cui faceva a “gara” (e quando dico gara, intendo proprio gara, tipo quella volta che si mise in testa di scalare un monte in meno tempo dei suoi colleghi protestanti).

Al lebbrosario, Padre Damien non si mette a predicare o a fare grandi sermoni su quale privilegio sia morire da buoni cattolici, no. Da buon ex contadino fiammingo si rimbocca le maniche: costruisce un cimitero, porta acqua corrente nel villaggio, si prodiga col governo per avere il materiale per realizzare delle case, celebra funerali, messe e festività con grande solennità, istituisce un coro, un’orchestra, imbocca i lebbrosi, cura le piaghe, amputa arti infetti, coltiva la terra, alleva polli, sistema la chiesa abbellendola così tanto da farla assomigliare più a un “negozio di cineserie” come la definirono le suore arrivate successivamente per aiutarlo, apre un orfanotrofio, inizia a fumare per resistere alla nausea dell’odore causato dalla malattia in modo da poter confessare e celebrare messa.

Damiano semplicemente ama e lo fa con gesti concreti.

Perché è facile dire l’amore, a parole, predicarlo, ma solo quando le persone lo vedono nei gesti, lo comprendono davvero e sono capaci di sceglierlo di conseguenza. Era necessario che anche Damiano si facesse “lebbroso tra i lebbrosi”, ultimo tra gli ultimi, che abbracciasse la croce prima della solitudine, dell’incomprensione anche di chi avrebbe dovuto sostenerlo e poi della stessa malattia che tentava di curare (anche se all’epoca non c’erano cure alla lebbra, ma solo palliativi per alleviarne i segni).

No, nonostante tutto, Molokai non è poi così distante da noi.

Questa isola è solo la metafora di come anche oggi, anche qui, siamo solo bravi a scansare la sofferenza, ad allontanare ciò che non ci piace vedere, che non riusciamo a spiegare, che è scomodo affrontare o peggio, che sembra inutile come quei malati. Uno degli effetti più comuni della lebbra, tra gli altri, è l’insensibilità cutanea che può arrivare fino alla completa insensibilità a calore e dolore col progredire della malattia e a pensarci bene, anche oggi, c’è una forma di lebbra che colpisce i cuori rendendoli duri e impenetrabili alla sofferenza che li circonda, al dolore: piuttosto lo scansiamo in una Molokai qualunque. Allora ancora oggi, proprio qui, c’è più bisogno che mai di invocare santi come Damiano de Veuster.

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