Baby blues e depressione post partum PRIMA PARTE -intervista a Rachele Sagramoso
Dal dolore alla gioia, dal sollievo alla tristezza, dalla felicità ai pianti immotivati. Il parto scatena tante emozioni (e tanti ormoni) che non sempre sono facili da gestire e “assimilare” per una neo mamma. È un giro sulle montagne russe e spesso nessuno ti ricorda di allacciare bene la cintura o di pigiare il bottone rosso per chiedere aiuto. Diventando mamme sembra che dobbiamo cavarcela da sole, che ormai sono gli altri a dipendere da noi e non possiamo permetterci il contrario. Quelle montagne russe possono essere solo una fase dura, ma transitoria: in poco tempo si scende da quel carrellino magari con la fortuna di aver avuto qualcuno vicino a tenere la mano, e questo è bastato. Altre volte non è così e ci si ritrova al “giro della morte”, sole. Questa intervista è dedicata a chi deve diventare mamma, a chi ancora è sulla giostra e continua a urlare senza nessuno che apparentemente ascolti davvero (se sei tu, pigia quel bottone, coraggio!), ma soprattutto è per tutte e tutti i parenti, gli amici, i vicini perché prima o poi, potreste trovarvi a dover essere quel compagno o compagna di montagne russe, anche vostro malgrado. Non tiratevi indietro, non dimenticate di tenere quella mano ben stretta per arrivare a fine corsa o schiacciare il bottone rosso se vi rendete conto che è davvero necessario e la diretta interessata da sola non ce la fa.
Cara Rachele, cominciamo dalla tua esperienza su Baby blues e depressione post partum.
Due argomenti spinosissimi per me, sia da ostetrica, sia da mamma. Vedrò che posso fare, sperando di essere chiara. Mi sono permessa di rispolverare un articolo per un’altra rubrica di cui mi occupo, “Donne sotto la Croce” (sul Quotidiano La Croce) dove toccai questo argomento per rispondere a una mamma che si chiedeva cosa le fosse accaduto da quando aveva partorito. Metto tra virgolette, quindi, il pensiero della dottoressa Miriam Incurvati con la quale condivisi la risposta pubblicata all’epoca, poiché certamente lei è più titolata nel trattare la situazione. Innanzi tutto vorrei fare un po’ d’introduzione sull’argomento, perché di baby blues non se ne parla molto. Quindi grazie a Martha, Mary and Me, che ha scelto di parlarne. Lo stato emotivo che alcune mamme si trovano a vivere dopo il parto, non è facile da accettare. “L’importante è che il bambino stia bene” si dice spesso sia a donne che hanno partorito bene, sia a quelle che magari invece hanno ricevuto assistenze al parto non piacevoli o dolorose. Questo, ovviamente, non mi trova d’accordo: se è pur vero che per una mamma sia fondamentale la salute del proprio bambino, le sensibilità sono molte e non sempre una mamma è entusiasta della sofferenza provata per mettere al mondo il suo bambino, se pur accolto con serenità o desiderato molto. La percezione che una donna possiede quando vorrebbe essere entusiasta e ‘sprizzare gioia da tutti i pori’ dimostrando di essere al settimo cielo per la nascita del suo bambino, ma fa fatica a sentirsi tale, può scatenare un senso di malessere molto forte. Lo stato emotivo di queste mamme è «spesso difficile da accettare nel proprio intimo e ancor meno condivisibile con il mondo esterno. (…) È importante avere il coraggio di uscire fuori dal buonismo cieco che a volte domina le conversazioni attinenti le neomamme, dall’idealizzata immagine della mamma del “mulino bianco” che al risveglio è ben lavata, vestita e truccata e con il sorriso splendido splendente va a svegliare il suo bambino che ovviamente le sorride e la abbraccia. Tutti noi facciamo i conti con un’idea, che costruiamo sin da prima del concepimento, sulle aspettative che riguardano come sarà il nostro cucciolo, come saremo noi, come sarà il papà e il mondo circostante. Questo lavoro immaginario è utile, ci serve per cominciare a misurarci con la vita che ci attende, fornisce la possibilità di iniziare a far spazio all’idea e poi alla realtà. La realtà, però, è più magnificamente articolata, ricca di sfumature, spigoli e tanta complessità. La maternità è decisamente un’esperienza strepitosa pur rimanendo una delle attività più impegnative di tutta la vita, (…). La madre si può sentire quindi, distante da quell’idea di “donna felice” che gli altri e lei stessa si aspettavano, e può addirittura sperimentare sentimenti di colpa e vergogna. Quindi, a ragione, (…) ci sono mamme che hanno bisogno di dar voce alla loro fatica: le ore di sonno che si riducono, il piccolo che ha bisogno prima del latte, poi del ruttino, e ancora del calore corpo a corpo, fino al bagnetto, al massaggio, all’addormentamento… insomma una continua richiesta fisica. Ogni mamma nel corso della sua esperienza genitoriale fa i conti prima o poi con questa umana stanchezza. Pertanto è “normale” entrare in contatto con questa spossatezza, anzi è qualcosa di assolutamente positivo. Sentire la nostra fatica, percepire che le risorse si stanno esaurendo è un importante radar che ci aiuta a fare il punto sui reali bisogni e così a riorganizzare la quotidianità in base alle nuove priorità. Mi sembra importante in questo contesto però anche fare delle distinzioni. La scienza parla di diversi tipi di scenari che possono manifestarsi correlati alla nascita».
2.Cos’è nello specifico il baby blues ed è vero che essendo limitato nel tempo termina da solo?
«In riferimento al primo mese dopo il parto si parla di baby blues (o maternity blues, ndr). Una condizione non significativamente rilevante dal punto di vista clinico, caratterizzata da umore instabile e ipersensibile, con tendenza al pianto, stanchezza, tristezza, ansia, perdita di concentrazione. Questa condizione è spesso correlata ad una multicausalità. In primis, si tengano presenti i cambiamenti fisici come la drammatica discesa dei livelli ormonali (estrogeni e progesterone) dopo il parto. Altri ormoni prodotti dalla ghiandola tiroidea, poi, possono diminuire drasticamente, lasciando una sensazione di stanchezza, pigrizia e apatia. I cambiamenti nel volume sanguigno, nella pressione, nel sistema immunitario e nel metabolismo rappresentano ulteriori fattori che possono portare agli sbalzi d’umore e alla stanchezza. Inoltre, i cambiamenti nel ciclo sonno-veglia e nell’alimentazione e a volte del proprio peso corporeo possono creare difficoltà. Lo stile di vita personale e familiare infine, influenza molto: la necessità di tornare al più presto al lavoro, la presenza o meno di altri figli, i problemi finanziari, ristabilire gli equilibri di coppia e le distanze-vicinanze con le famiglie di origine. Nella grande maggioranza un simile quadro è transitorio, e nel giro di poche settimane sensazioni di questo tipo tendono a scomparire, ma se fossero ancora presenti con l’avanzare dei mesi dalla nascita la situazione va analizzata meglio per capire se possa trattarsi di depressione post parto, ed in tutti i casi va ascoltato e fornita una risposta concreta al grido di aiuto della mamma. Pertanto, si suggerisce di consultare uno specialista» (dottoressa Incurvati).
3. Come prevenire il baby blues?
Il baby blues non è prevenibile o prevedibile: essendo per lo più fisiologico, non è semplice sapere se quella mamma che magari reputiamo delicata o più sensibile, automaticamente ne soffrirà, oppure se – al contrario – una mamma forte e determinata potrebbe non rapportarsi con tale fenomeno. Ovviamente ci sono condizioni che possono far supporre che, per una mamma, il post-partum potrebbe non essere semplice: queste dipendono da che gravidanza sta vivendo (la prima, la seconda, ecc.), quali vicende sono legate alla sua situazione ostetrica (è il primo bambino? Il secondo? Ha mai perso dei bambini durante la gravidanza?), quale situazione familiare vive (abita con il marito col quale va d’accordo? Abita con un membro della famiglia che non accetta? È sola con altri bambini?). Penso che sia indispensabile ricordare che, storicamente e culturalmente, la gravidanza è sempre stata vissuta come un segno di salute che le donne vivono da millenni, ma solo ultimamente (più o meno con l’inizio dell’era industriale) costoro hanno dovuto vivere spesso sole tale condizione. La maternità, col tempo (purtroppo il progresso non porta con sé sempre innovazioni positive per le fragilità), è andata a diventare un passaggio della vita che la donna è costretta a vivere privatamente. Se le donne, un tempo (per lo meno sino agli anni’60, nell’Italia rurale delle Condotte Ostetriche), vivevano la loro maternità nella quiete della casa e nella cura da condividere con altre donne dando alla luce i bambini dei quali tutta la comunità femminile della zona si occupava (la partoriente si riposava quaranta giorni dopo il parto: le altre donne l’aiutavano), oggi come oggi la donna, nella sua privacy, mette al mondo un bambino e spesso la vicina di casa non lo sa. Le famiglie sono nucleari e la donna vive la sua maternità come una parentesi in una vita frenetica fatta di altri figli, relazioni con la famiglia d’origine, lavoro e tran-tran quotidiano. Oggi come oggi, quindi, il baby blues potrebbe essere un malessere non solo che parte dalla donna e causato direttamente da un personale momento di adattamento alla maternità, ma anche una situazione che è causata da quello che influenza la donna da fuori, da una serie di piccole difficoltà che indirettamente possono essere esterne alla gravidanza o al fatto dell’essere divenuta mamma.
4. Qual è la differenza con la depressione post partum?
Il Ministero della Salute riconosce che «La depressione post partum (DPP) o depressione puerperale è un disturbo che colpisce, con diversi livelli di gravità, dal 7 al 12% delle neomamme ed esordisce generalmente tra la 6ª e la 12ª settimana dopo la nascita del figlio. […] La DPP rappresenta un problema di salute pubblica di notevole importanza, se si considerano la sofferenza soggettiva della donna e dei suoi familiari, nonché le limitazioni e i costi diretti e indiretti dovuti alla compromissione del suo funzionamento personale, sociale e lavorativo. Il disturbo interferisce anche con le abilità della donna nell’instaurare un interscambio di comportamenti e di emozioni con il suo bambino. Il 67% delle madri depresse riferiscono, infatti, difficoltà di interazione e attaccamento. L’interscambio è stato riconosciuto come essenziale per un’efficace relazione madre-bambino, capace di prevenire le conseguenze a lungo termine sullo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo del bambino. La DPP deve essere distinta dalla cosiddetta psicosi post partum, detta anche psicosi puerperale, un disturbo molto raro e più grave nelle sue manifestazioni. Le donne che ne soffrono presentano stati di grande confusione e agitazione, gravi alterazioni dell’umore e del comportamento, spesso allucinazioni e deliri. Questi stati sono molto rari. […] Esistono metodi diagnostici per la DPP? Sì, certamente. Esistono anche strumenti di screening, per esempio l’Edinburgh Postnatal Depression Scale (EPDS) o Scala di Edimburgo, un questionario di 10 item concepito come strumento di screening per migliorare l’individuazione della depressione post natale nel contesto dei servizi socio-sanitari e può essere utilizzato anche da ricercatori che intendono raccogliere informazioni sui fattori che influenzano il benessere emotivo delle neomamme e delle loro famiglie. […] L’EPDS è stato sviluppato negli anni ’80, in quanto l’esperienza clinica accumulata sia nei Paesi ricchi che in quelli poveri mostrava che la depressione unipolare, e in particolare la depressione postnatale, è un disturbo comune che causa molta sofferenza inutile alle donne e alle loro famiglie e che tale depressione poteva influenzare negativamente lo sviluppo e l’accudimento del bambino, la continuità del matrimonio e l’economia della famiglia. A ogni donna che risulta positiva dovrebbe essere data l’opportunità di avere un colloquio clinico e un ulteriore approfondimento, generalmente entro 2 settimane». (http://www.salute.gov.it/portale/salute/p1_5.jsp?id=154&area=Disturbi_psichici)
5. Qual è la tua esperienza come ostetrica: sono situazioni frequenti? In che percentuale?
La mia esperienza come ostetrica è fatta di tante mamme sulle quali avrei scommesso il tutto e per tutto sul fatto che avrebbero sofferto di baby blues, e invece mi sono trovata ad ammettere che ho sbagliato alla grande. La prima fu Claudia: affetta da obesità e da uno stato di anoressia nel recente passato adolescenziale, era incinta di un ragazzo molto più giovane di lei. Una relazione complessa con la famiglia d’origine e uno status lavorativo incerto. Come se non bastasse, dovette sottoporsi a un cesareo perché il parto non progrediva e il bimbo iniziava a risentirne. Ero pronta a scommettere che lei sarebbe stata una mamma da sostenere in tutto e per tutto e mi sbagliai di grosso: il suo bambino fu la sua risorsa e lei, dovendosi improvvisare per lavorare ma non potendo affidare il bimbo ad altre persone, trovò uno sbocco lavorativo che la avvinse e la rinnovò come persona. Poi ci sono state Elena che aveva appena perso la mamma ed era giovanissima. Il medico le suggerì pure di abortire per darsi tempo a rielaborare il lutto (non scherzo). Lei si dedicò alla gravidanza ed è diventata una mamma felicissima. Lia poi, ha dell’incredibile. Le dissero ch’era incinta in un lettino di contenzione in psichiatria: aveva abusato di alcool e droghe. La gravidanza la salvò, ma anche la maternità: è sempre stata felicissima! Viceversa mamme con situazioni che io reputavo più serene e stabili, maturarono un po’ di tristezza e quello che possiamo definire baby-blues: purtroppo l’esperienza mi ha insegnato che bisogna stare a occhi aperti. Ecco, se ci sono un paio di dati che io ho acquisito essere importanti per capire che situazione potrebbe crearsi dopo la nascita del bambino, questi sono: come la donna ha vissuto l’esperienza del parto (quindi la nascita dal punto di vista della madre) e la relazione con la mamma della donna sia nel passato di figlia, sia nella trasformazione che è giusto avvenga tra generazioni.
6. In base sempre alla tua esperienza quali sono le situazioni più a rischio? (madri single, madri con già altri figli o madri alla prima gravidanza, ecc.)
Personalmente le situazioni più delicate sono sempre state quelle più estreme: la donna che si percepisce sola socialmente (ovvero quella donna anche sposata o inserita in un contesto familiare, che però sente di doversi accollare tutto l’impegno della gestione del neonato e, magari, sente come impellente l’arrivo del momento del ritorno al lavoro); la donna che mette al mondo il figlio di una relazione instabile (spesso si tratta di coppie che sono casuali o che si sono unite dopo avere avuto precedenti famiglie e anche altri figli); la donna con problemi di salute psicologica dovuti alla relazione con madri anaffettive che si trovano ad affrontare un neonato con tutti i bisogni che noi oggi reputiamo fisiologici (contatto, sonno, attenzione fisica); la donna inesperta che è trattata da sciocca da chi la circonda (dal marito che la critica, dal pediatra che dà suggerimenti spesso errati, dai parenti invadenti, oppure quella giovane definita immatura per l’esperienza della maternità: cosa che invece io rispedisco al mittente facilmente poiché le ragazze giovani – anche solo per l’età – hanno energia e voglia di misurarsi con la vita. Sono molto più “incoscienti” delle donne più mature e questo rende la loro vita più semplice da affrontare); la donna che ha scelto la procreazione extracorporea e quella che ha perso un figlio nella gravidanza precedente.
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