Quaresima con Tolkien #29 – MONTE FATO

“Rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.”

Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Colossési

<<Era il Luogotenente della Torre di Barad-dûr, e il suo nome non è ricordato da alcuna storia; egli stesso infatti l’aveva dimenticato e diceva: “Sono la Bocca di Sauron. […] Ho degli oggetti che mi è stato chiesto di mostrare, a te soprattutto, se avessi avuto l’ardire di venire sino a qui”. Fece segno a una delle guardie e questi si avvicinò con un fagotto avvolto in panni neri. Il Messaggero tolse l’involucro e mostrò, con stupore e costernazione di tutti i Capitani, prima una piccola spada uguale a quella di Sam, e poi un manto grigio con la spilla elfica, e infine la cotta di maglia di mithril appartenuta a Frodo, insieme con le sue vesti logore. Si fece buio innanzi ai loro occhi, e in quel minuto di silenzio parve ad ognuno che il mondo fosse immobile, e i loro cuori fossero morti, e svanita sin l’ultima speranza. […] (Bocca di Sauron) “inviarli come spie a Mordor supera persino la vostra solita follia. […] è chiaro che aveva già veduto questi oggetti prima d’oggi, e negarlo sarebbe ormai vano da parte tua”. “Non desidero negarlo”, disse Gandalf. “Anzi, li conosco tutti e conosco la loro storia, e malgrado la tua arroganza, infida Bocca di Sauron, non puoi dire altrettanto. Ma perché li porti qui?”. […] “Vedo che vi era caro. O forse la sua missione era tale che non desideravate vederla fallire? Ebbene, è fallita. Ed egli dovrà adesso sopportare il lungo tormento degli anni, reso ancora più lungo e più lento da tutti gli artifizi che la Grande Torre potrà escogitare, per non venire mai più liberato, o soltanto quando sarà trasformato e disfatto, affinché tornando da voi vi possa mostrare quello che gli avete fatto. Tutto ciò accadrà di certo – a meno che accettiate le condizioni del mio Signore”. […] (Gandalf) Aprì il manto ed una bianca luce squarciò quel luogo nero come una spada sguainata. Innanzi alla sua mano alzata il Messaggero indietreggiò, e Gandalf avvicinatosi afferrò e gli strappò di mano gli oggetti: cotta, manto e spada. “Prenderemo questi in ricordo del nostro amico”, gridò. […] Vattene, perché la tua ambasciata è terminata e la morte ti è vicina. Non siamo venuti qui per sprecare parole contrattando con Sauron, infido e maledetto com’è, ed ancor meno con uno dei suoi schiavi! Vattene!”. Allora il Messaggero di Mordor non rise più. Per lo stupore e il furore il suo viso si contorse, rassomigliando a quello di un animale selvaggio che, accoccolato sulla sua preda, viene colpito sul muso da un nodoso bastone. Egli si empì di rabbia e la sua bocca incominciò a sbavare, mentre informi suoni gutturali uscivano dalla sua gola. Ma guardando i volti spietati dei Capitani ed i loro occhi micidiali, la paura sopraffece il suo furore e con un grande urlo balzò a cavallo e galoppò selvaggiamente verso Cirith Gorgor seguito dalla sua compagnia. Ma mentre tornavano, i suoi soldati suonarono i corni per un segnale prestabilito; prima ancora che giungessero al cancello, Sauron fece scattare la sua trappola. >>

Il Signore degli Anelli, Il ritorno del Re, libro I, cap. X, “Il Cancello Nero si apre”

La salita del Monte Fato è un po’ il Calvario di ognuno di noi.

Non si può riassumere, non è qualcosa che i due Hobbit potranno ricordare senza soffrirne, qualcosa di eroico da tramandare, qualcosa da condividere con spavalderia. Il nostro Monte Fato è qualcosa di concreto, lascia segni nella mente e nella carne, è fatto di tutto il brutto del “quaggiù”, delle cadute e delle scelte dolorose che non vogliono farti gettare quell’anello, nonostante il male che continui a provocarti. 

La compagnia è disgregata, ed i suoi frammenti si ritroveranno, ignari, a combattere tutti nelle terre di Mordor, nei luoghi che appartengono all’Oscuro Signore.

Anche gli apostoli, da quell’ultima cena assieme e dalla notte passata nel Getsemani si disperdono alla cattura di Gesù per  ricomporre ciò che resta del gruppo dopo aver ricevuto la notizia della sua crocefissione. Tornano in silenzio, affronteranno la vergogna della fuga, si incontreranno di nuovo nello stesso luogo: le tenebre della morte li avevano dispersi, abbandonando Gesù alla sua passione. 

Ciò che si presenterà davanti agli occhi di Gandalf, Aragorn, Legolas, Gimli e Pipino, assomiglia molto a quel sepolcro vuoto: l’Oscuro Signore tenta di distruggere ogni loro speranza presentando il “bottino” che gli orchi avevano riportato dalla cattura di Frodo a Cirith Ungol. Il terrore invade il piccolo hobbit alla vista degli oggetti che erano appartenuti all’amico portatore dell’anello: la lama dell’Ovesturia, l’elfico mantello, la spilla della foglia di Lorien, infine la cotta di mithril. 

C’è sgomento e paura nei loro occhi, un po’ come quel giorno: “Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”.”

Tutti sono turbati,

ci sono le prove e nessuno riesce a mettere in fila gli eventi. Un sudario, una mithril. Il turbamento è umano e comprensibile, quando la nostra ragione si scontra con l’ineffabile. Sembra quasi che i “nemici” ricordino meglio le parole del Signore degli “amici”, sembra che abbiano più fiducia in quella promessa di chi non avrebbe davvero dovuto dubitarne: i suoi discepoli, ancora ciechi di fronte al mistero della resurrezione. Come Sauron, che conosce quanto è imminente il pericolo e gioca la carta della menzogna. 

“Alcuni della guardia giunsero in città e riferirono ai capi dei sacerdoti quanto era accaduto. Questi allora, radunatisi con gli anziani, deliberarono di dare una cospicua somma di denaro ai soldati, e dissero loro: “Dite: I suoi discepoli sono venuti di notte, e l’hanno rubato mentre noi dormivamo. E se poi la cosa verrà agli orecchi del governatore, lo placheremo noi e faremo in modo che voi non siate puniti”.” 

Gli avvenimenti sono clamorosi, diciamo che hai voluto fare le cose in gran stile come sempre: “Ed ecco, vi fu un gran terremoto. […] Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte”.

Gli apostoli non riescono a crederci, Pietro corre insieme a Giovanni. 

Cos’è che ci turba profondamente?

L’avverarsi delle tue parole, o il fatto che la nostra fede è troppo piccola per credere a ciò che vedono anche i nostri occhi? I teli sono lì, le guardie sbaragliate, la pietra rotolata.  Cosa possiamo dire, noi, di quella tomba vuota? Hanno rubato anche quello che rimaneva del nostro Signore? Forse abbiamo creduto invano. Forse la missione era davvero disperata. Conviviamo sempre col dubbio che si insinua, con la paura della disfatta, di aver sprecato il tempo, di aver creduto a una favola.

Questa volta è Gandalf ad assomigliare a Maria: non ha bisogno di vedere, non ha bisogno di prove, la madre non porta oli alla tomba e i vangeli non ci descrivono un moto di turbamento o al contrario una corsa per andare incontro al figlio.  Così come Gandalf che non si lascia sfiorare dalle parole della Bocca di Sauron: non hanno valore per lui le sue promesse, scova la menzogna nei suoi tranelli, non fa differenza ciò che gli occhi possono vedere, di fronte alla certezza sempre viva che il male non potrà mai avere la meglio.

Gandalf lo sa che non sempre ciò che si osserva rispecchia ciò che è vero, che una tomba vuota non vuol dire un corpo rubato, che a volte bisogna avere una fede folle, oltre ogni concretezza, che possa aprire lo sguardo ad un mistero inspiegabile, qualcosa al di sopra della nostra stessa natura. Il male con le sue menzogne avrà sempre una ragione più forte, di fronte a cuori ciechi che non hanno imparato a “fare esperienza” del mondo come lo hanno vissuto i discepoli di Gesù, a piantare le tende su una realtà nuova, anche se incomprensibile. 

Se ci fermiamo a quella mithril o a quella Sindone non riusciremo a vedere la salvezza che è già sul Monte Fato,

quei due Hobbit che contro ogni logica o calcolo delle probabilità sono alla bocca del vulcano a distruggere nel fuoco l’anello. Se ci fermiamo a ciò che i nostri occhi vedono, ci toccherà sempre il compromesso con quella morte che ci terrorizza: godercela fin che possiamo, sperare che non tocchi a noi o comunque ci tocchi il più tardi possibile, passare sopra ai fratelli in nome del benessere che sfugge, guardare al che c’è di male invece che chiedersi cosa ci sia davvero di bene. Se ci fermiamo al cancello di Mordor possiamo solo sperare nel male minore, invece di credere che fino all’ultimo, anche quando abbiamo sbagliato tutto fino a quel momento, scegliere il bene, ci salva dalla morte e fa risorgere tutta la nostra vita.

Credere, in fin dei conti, assomiglia molto alla speranza che nonostante ogni evidenza, quei due Hobbit ce l’avrebbero fatta e risorgere, alla fine, non è altro che arrivare a quei cancelli neri, faccia a faccia con la morte e, nonostante la paura, sapere che ne vale la pena, anche di morire, perché non è una resa, non è la fine: Lui ha sconfitto la morte anche per noi, sul suo Monte Fato.

<< Come se ai suoi occhi fosse improvvisamente apparsa una visione, Gandalf trasalì: si voltò a guardare verso nord, dove i cieli erano limpidi e pallidi. Poi alzò le mani e gridò con voce possente che sovrastava ogni altro rumore: “Arrivano le Aquile!” […] la grande aquila, Gwaihir, Re dei Venti, scese verso di lui e si posò a terra. […] “Vieni, e che tuo fratello ci accompagni, insieme con il più rapido dei tuoi vassalli! Dobbiamo essere più veloci di qualunque vento e battere in rapidità persino le ali dei Nazgûl”.[…] Passarono su Gorgoroth e Udûn, sorvolando terre distrutte e in rovina, e innanzi a loro il Monte Fato avvampava, vomitando fuoco. Frodo e Sam non riuscirono più ad avanzare. Le ultime forze abbandonavano rapidamente la loro mente e il loro corpo. Avevano raggiunto un piccolo colle di cenere ai piedi della Montagna, ma da lì non vi era alcuna via di scampo. Era come un’isola che non avrebbe resistito a lungo in mezzo alle convulsioni dell’Orodrúin. Tutt’intorno la terra era spaccata, e da profonde fessure e pozzi abissali si levavano fumi ed esalazioni. Alle loro spalle la Montagna rantolava. I suoi fianchi erano squarciati da enormi fenditure. Lenti fumi di fuoco avanzavano verso di loro. Fra non molto sarebbero stati sommersi. Pioveva una grandine di cenere incandescente. […] E fu così che Gwaihir li vide con i suoi occhi aguzzi, mentre volava nel vento selvaggio, sfidando i pericoli del cielo e compiendo giri nell’aria: due piccole figure scure, sconfortate, che si tenevano per mano sopra un piccolo colle, mentre sotto di esse il mondo tremava e rantolava e i fiumi di fuoco si avvicinavano alle loro spalle. E proprio nell’istante in cui le scorgeva e scendeva verso di esse, le vide cadere, sfinite o soffocate dalle esalazioni e dal calore, coprendosi gli occhi di fronte alla morte. Giacevano a fianco a fianco, e Gwaihir si posò in terra, e si posarono anche Landroval e Meneldor il veloce, e come in un sogno, ignari di ciò che stava accadendo loro, i viaggiatori furono raccolti e trasportati lontano dall’oscurità e dal fumo. >>

Il Signore degli Anelli, Il ritorno del Re, libro II, cap. IV, “Il Campo di Cormallen”
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