Quaresima con Tolkien # 24 – LE TOMBE DEI RE

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Gesù disse: “Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. […] Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura”.

Dal Vangelo secondo Marco

<< Giunsero infine ad una porta nelle mura posteriori della sesta cerchia. La chiamavano Fen Hollen perché rimaneva sempre chiusa, eccetto in occasione dei funerali, e solo il Sire della Città poteva servirsene, insieme con quelli che portavano l’effigie delle tombe e custodivano le dimore dei morti. Oltrepassata la porta, una strada serpeggiante conduceva giù alla stretta fascia di terra ove si trovavano le abitazioni dei Re morti e dei loro Sovrintendenti. […] Faceva molto buio in quella ripida via fiancheggiata da antiche mura e da colonnati di rampe che si ergevano imponenti alla luce oscillante della lanterna. Sentivano l’eco dei propri passi lenti che scendevano sempre più in basso fino a raggiungere la Via Silente, Rath Dinen, fra pallide volte, sale vuote e immagini di uomini morti da lungo tempo; entrarono così nella Casa dei Sovrintendenti e posarono il loro fardello. Ivi Pipino, guardandosi intorno con inquietudine, vide che si trovava in un’ampia camera a volta che pareva drappeggiata dalle pesanti ombre che la piccola lanterna proiettava sulle pareti tappezzate. Riuscì a scorgere vagamente molte file di tavoli scolpiti nel marmo, e su ciascun tavolo giaceva una figura dormiente con le mani incrociate e il capo appoggiato alla pietra. Ma un tavolo lì vicino era ampio e vuoto. Su di esso al segnale di Denethor stesero Faramir e suo padre a fianco a fianco coprendoli con un lenzuolo, poi rimasero in piedi a capo chino come uomini in lutto vicini al giaciglio di un morto. Allora Denethor parlò a voce bassa. “Qui attenderemo”, egli disse. “Ma non mandate a chiamare gli imbalsamatori. Portateci presto della legna da ardere e posatela tutt’intorno e anche sotto di noi; poi versate dell’olio. E quando ve lo chiederò appiccate il fuoco. Fate ciò che vi ordino e non rivolgetemi più la parola. Addio!”.>>

Il Signore degli Anelli, Il ritorno del Re, libro I, cap. IV, “L’Assedio di Gondor”

Quello delle Tombe dei Re è il luogo più sacro della città di Gondor, riservato alla sepoltura dei sovrani e dei sovrintendenti che hanno regnato la città. Sarà un’onorificenza quella che, Tolkien ci racconterà, verrà riservata ai due hobbit Merry e Pipino, di riposare ai piedi di Sire Aragorn, alla fine dei loro giorni. Ciò che mi ha sempre stupito, è l’altro nome con cui vengono chiamate: “Case dei Re”. Non erano luoghi dove si poteva andare e la Via Silente, Rath Dinen, veniva percorsa solamente durante i cortei funebri. Allora perché case? Perché non mausolei dei re? Nessuno abita quei luoghi, nessuno ci passeggia, cosa può portare ad associarli alla vita?

Quella lunga Rath Dinen non è certo il corteo festoso che accolse Gesù a Gerusalemme, eppure hanno qualcosa in comune.

Denethor percorre quella via buia e silenziosa lungo le sale dei morti, ma che silenzio grave ci sarà stato nell’animo di Gesù entrando a Gerusalemme, il luogo dove in pochi giorni, sulle bocche ora festanti, l'”Osanna” avrebbe lasciato spazio a un feroce “Barabba”? Quell’accoglienza, quel chiasso gioioso me lo immagino così stonato in confronto ai pensieri che avranno di certo animato Gesù e che neanche i suoi amici potevano comprendere. Come può tanta vita capovolgersi così violentemente in morte, come una “casa” che è invece “tomba”? Tolkien ci porta ancora una volta a guardare oltre la realtà fatta di cose materiali: non c’è il nulla, dietro il pesante velo della morte, neanche nella Terra di Mezzo.

C’è un’altra casa, appunto, un altro luogo su cui fissare lo sguardo. Tolkien parla di dono.

Siamo abituati a vedere nella morte il castigo, la pena da scontare, ma difficile osare definirla “dono”. Eppure, nel paragone con gli Elfi, anche il professore spezza una lancia a favore di questo mistero. Mentre gli Elfi, di cui si invidia l’immortalità, non hanno altro fine che questo mondo, questa realtà, nella Terra di Mezzo o nel reame beato di Valinor, agli uomini è riservata l’immensità: nella morte essi lasciano i confini dell’universo in un disegno che Dio ha scritto per loro. C’è una casa che li attende e che nessuno conosce all’infuori di Ilúvatar. Nel percorrere quel “rumoroso silenzio” che è stata per Gesù l’entrata a Gerusalemme, lui aveva lo sguardo già fisso oltre i confini di questa realtà: quegli “Osanna!” erano segno di un trionfo che doveva venire. Nel difendere la donna che l’ha celebrato con olio prezioso, lui vedeva già oltre quelle giornate angoscianti: la celebrazione di un corpo che avrebbe trionfato contro la morte, onorato come si fa coi grandi re. Denethor guarda la mente di Sauron, ne vede tutta la forza e la desolazione, ma non riesce a non sentirsi solo, non riesce a vedere suo figlio Faramir ancora in vita, Gandalf, i suoi alleati. È una solitudine ostinata che lo rende forte solo del proprio orgoglio e lo spinge fino al baratro della follia, fino a distorcere la realtà:

Denethor vive per sé stesso, per questo è già morto, corrotto nel profondo.

Preferisce smettere di lottare e darsi fuoco col suo erede perché ha smesso di sperare: non ha senso vivere quando sai che ti aspettano solo dolore e morte. Ecco che Gesù ci dona un nuovo modo di vedere, una vita trasfigurata dalla realtà dell’eterno: ci dona un nuovo modo di morire. Morire in Cristo, per avere vita nuova: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la ritroverà”.

Forse dovremmo cambiare prospettiva: siamo già nella metamorfosi verso la vita eterna, fin da quando l’anima è andata ad abitare quella prima cellula.

Possiamo scegliere di vivere questa trasfigurazione non come una continua perdita, un’inesorabile avanzata verso la fine, ma accogliere la grazia o persino i cambiamenti che non vorremmo, certi che “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”, prima di prendere Gesù per mano, attraversandola con lui, questa coltre di universo.

<< Volle dunque che i cuori degli Uomini indagasse oltre il mondo e che in questo essi mai trovassero pace; ma che possedessero la virtù di dare forma alla propria vita, […] sapeva che gli Uomini, essendo stati posti fra i tumulti delle potenze del mondo avrebbero deviato spesso e che non avrebbero adoperato in armonia i propri doni; per cui egli disse: “Anche costoro, a tempo debito, costateranno che tutto ciò che essi fanno alla fine torna soltanto a gloria della mia opera”. […] Uno di questi doni di libertà consiste nel fatto che i figli degli Uomini abitano solo per breve tempo nel mondo vivente e che non sono vincolati a esso, e che lo lasciano presto, per andare dove gli Elfi non sanno. […] Morte è il loro destino, il dono […] che, con il consumarsi del Tempo, persino le Potenze invidieranno.>>

Il Silmarillion, cap. I, “Dell’inizio dei Giorni”
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