Quaresima con Tolkien #18 – TORECH UNGOL, TANA DEL RAGNO

“E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?”

Dal Vangelo secondo Giovanni

<<In un burrone viveva, e assumeva forma di ragno dall’aspetto mostruoso, tessendo le sue nere tele in un crepaccio tra i monti. Quivi succhiava tutta la luce che riusciva a trovare, e poi la filava in scure reti di soffocante tetraggine, finché nessun’altra luce poteva penetrare nella sua dimora; e allora era colta da fame.>>

Il Silmarillion, cap. VIII, “Dell’Oscuramento di Valinor”

<<Dopo pochi passi si trovarono nella più cupa e totale oscurità. […] Qui l’atmosfera era immobile, stagnante, greve, ogni rumore sordo. Sembrava di camminare in un vapore nero plasmato nell’oscurità stessa, e alla cecità degli occhi si aggiungeva ad ogni respiro una più densa nebbia della mente, che offuscava e cancellava persino il ricordo di luci, forme e colori. La notte era il passato, era il futuro; non esisteva che essa. […] Essa dimorava lì da tempi immemorabili, malefico essere a forma di ragno, […] Nessuna storia narra in che modo, fuggendo dalla rovina, Shelob fosse giunta lì: pochi sono i racconti tramandati dagli Anni Oscuri. Eppure era ancora in quel luogo, colei che vi era arrivata prima di Sauron, prima che fosse posta la prima pietra di Barad-dûr; e non serviva altri che se stessa, bevendo avidamente il sangue di Elfi e Uomini, grassa e gonfia per via dell’interminabile rimuginare i suoi banchetti, tessendo ragnatele d’ombra; ogni essere vivente era il suo cibo, e il suo vomito era oscurità. Le sue orride covate, bastardi dei miserevoli maschi, della propria progenie che uccideva, si erano disperse a destra e a sinistra, fra monti e valli, dall’Ephel Dúath ai colli orientali, sino a Dol Guldur e alla fortezza del Bosco Atro. Ma nessuno poteva rivaleggiare con lei, Shelob la Grande, ultima figlia di Ungoliant, nel tormentare il mondo infelice. […] essa non desiderava altro che la morte dell’altrui mente e corpo, e per se stessa vita a sazietà, sola, e gonfia finché né le montagne né l’oscurità l’avrebbero più potuta contenere.>>

Il Signore degli Anelli, Le due torri, libro II, cap. IX, “La tana di Shelob”

Ungoliant è uno spirito malvagio, un ragno, che compare nel Silmarillion.

Si celava regnando nelle tenebre più profonde e fitte nella terra dei Vala: aiutò Melkor, essenza del male, quando questi volse per la prima volta il suo sguardo invidioso sul reame beato. Fu tra i primi spiriti a soggiogarsi al suo servizio, ma in seguito ripudiandolo, rimase senza padrone, nutrendosi di tutto, saziandosi di niente: coltivava la sua bramosia senza mai poterne saziare il vuoto, soddisfarne la sete. Senza destare sospetti, strisciava spesso nel regno: la luce la assetava e la divorava dall’odio allo stesso tempo. Ungoliant, bramosa di male, fugge e si rifugia nella Terra di Mezzo dove partorisce mostruosità e le disperde nel mondo, moltiplicando corruzione e tenebre: Shelob è una sua figlia.

Questa sete che può placarsi solamente divorando la luce, non è soltanto una caratteristica come tante, a guardarla bene, ma un male insidioso che assomiglia molto alla gelosia.

Che strana coincidenza che siano proprio le uniche due entità malvagie di sesso femminile in tutto il mondo Tokieniano a rappresentare in qualche modo questo male. Un male che può portare a uccidere. Amiamo parlare di riflettori, di chi cerca di brillare ad ogni costo, di chi desidera essere sopra il piedistallo e non coperto dall’ombra di chi gli sta vicino, in alto come statue al museo: primi, unici e bramati da tutti, considerati quasi esseri divini. E’ questa la nostra sete perenne, che ci porta a invidiare chiunque incontriamo sul nostro percorso, sui social, sulle riviste. Questa è Ungoliant: colei che imprigiona la luce per tesserne tenebre intricate dove disgrega i fulgidi raggi dorati in ombre e terrore. E questi siamo noi tutte le volte che non riusciamo a guardare l’altro e gioire o semplicemente ammirare, godere della bellezza delle qualità, dei successi altrui come di un dono per tutti, anche per noi che invece quella luce, la vorremmo nostra. E’ più forte di noi: l’entrata e l’uscita della galleria sono i momenti, i “prima” e i “dopo” del nostro giudizio. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume”, “dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità”. Come risuonano anche per me queste parole, Signore.

Aiutami a ricordare che io ho già una luce a cui posso attingere sempre, una “fiala” che mi salva dalle mie gallerie buie come quella donata da Galadriel a Frodo.

Anche la mia è luce di stella, anzi delle dodici stelle sul Suo capo, più bianca della Luna. Aiutami Maria a lasciare accesa la “fiamma” dello Spirito, a non rinchiudermi dentro il freddo di una montagna inaccessibile. Soccorrimi al mio flebile richiamo, anche quando non sono cosciente di volerti, anche quando non so chiedertelo, aiutami anche quando non so cercarti.

<< “Padrone! Padrone!”, gridò Sam, e la vita e la fretta tornarono nella sua voce. “Il dono della Dama! La fiala-stella! Disse che doveva essere per voi una luce nel buio. La fiala-stella!”. “La fiala-stella?”, ripeté Frodo senza capire, come chi risponde nel sonno. “Ma sì! Come ho potuto dimenticarla? Una luce ove tutte le altre luci si spegnessero! Ed ora davvero soltanto la luce può aiutarci”. […] “Aiya Eärendil Elenion Ancalima!” gridò, ma non comprese le parole pronunziate; gli parve che un’altra voce parlasse con la sua bocca, una voce limpida, inalterata dall’immonda aria della galleria. […] Tenendo alta la stella e la luminosa spada puntata in avanti, Frodo, Hobbit della Contea, avanzò deciso verso gli occhi. Essi vacillarono. Il dubbio li colse man mano che la luce si faceva più vicina. Si oscurarono uno per uno e retrocedettero lentamente. Nessun bagliore così micidiale li aveva mai colpiti. Lì sotto terra erano sempre stati al riparo dal sole, luna e stelle, ma ora una stella era penetrata sin nelle viscere della terra. Si avvicinava implacabile, e gli occhi non seppero resistere. Si spensero tutti, si distolsero, ed una grande massa fuori della portata della luce mosse la sua enorme ombra. […]>>

Il Signore degli Anelli, Le due torri, libro II, cap. IX, “La tana di Shelob”
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