Portiamolo. Anche col brusio.
Brusio.
O forse più chiacchiericcio.
No, silenzio proprio no.
Silenzio mai.
Mentre il capo della confraternita parla e spiega come tutti gli anni i convenevoli della processione, pretendendo un silenzio che come da tradizione ogni anno non c’è, mi guardo intorno e assaporo il momento.
Tutti gli anni. Tutti i sacrosanti anni. Da più di tre generazioni.
Una chiesetta sconsacrata.
E’ quasi impressionante come un luogo così insignificante, così piccolo ed ovviamente abbandonato per tutto il resto dell’anno, in questo giorno sia la tappa fondamentale. Eh sì, perché si diventa quasi gelosi di quel posto.
Ce l’abbiamo cucito addosso quel piccolo angolo della città, pieno di polvere e muffa, ma che sa di tradizioni, di passato, di vita vera.
Eccomi in fila con le “pie donne” pronte per uscire e prendere il mio posto, a cantare i lamenti del mio Signore.
Per noi ogni venerdì Santo non è un ricordare qualcosa, un onorare qualcuno.
Per noi ogni venerdì Santo è morto un nostro amico, nostro fratello, il nostro Signore.
Non è una scelta la mia, non è una decisione. La mia è una costrizione.
Sì, sono costretta: a seguire il suo corpo, a cantarne i lamenti, ad accompagnarlo per le strade delle mia città. Una città che spesso lo ignora, anche quando passa morto sopra un cataletto, ma si respira un’aria diversa quella notte.
Perché davvero non è solo un ricordo quello che viviamo.
Quando indosso il cappuccio, quando le luci si spengono, quando partono le battistangole siamo lì, 2000 anni indietro a piangere Lui.
Insieme alla città che abbassa le luci è come se si fermasse il mondo questa notte. E insieme al corpo di Cristo è come se portassimo tanti dolori: i nostri per primi, poi quelli di una società che dimentica il debole, che uccide i bambini nella pancia della mamma, che lascia soli gli anziani, che non è più capace di trovare la verità. E questa notte ce l’ha davanti, sfila per le sue strade. E persino l’aria è frammentata.
Fra le crepe del nostro presente si insinua potente la storia.
Non sei più nemmeno sicuro che sia il 2018, che nel cataletto ci sia una statua. Che i lamenti delle donne appartengano al ventunesimo secolo.
Tutti si fermano, tutti guardano, tutti si girano.
E quel “non so che” che la gente viene a toccare, che la gente cerca di snobbare girandosi dall’altra parte, in verità lo puoi leggere nei loro sguardi.
Puoi non crederci, puoi essere di un’altra religione, eppure tutto il tuo essere risente di quelle vibrazioni .
Davanti ai tuoi occhi la morte, davanti ai tuoi occhi la fragilità, nel profondo di te stesso il mistero.
Nel chiacchiericcio generale che ti viene spontaneo odiare (perché così poco rispetto, perché sei venuto se non ci credi?) capisci che Dio ti fa un dono.
Sei tra le pie donne, tra i “Lazzaro”, i “Giovanni” e le “Marie”, tra i soldati e coloro che hanno gridato “crocifiggilo” e oggi sono davanti al bar che continuano la loro bevuta di Negroni.
Sei lì, soffri e gioisci del mistero della morte e della Risurrezione.
Vivere una confraternita è un dono, andare a una processione, una rievocazione della passione, alle tre ore il venerdì Santo è un dono per noi e per tutta la città dove viviamo. Anche se ci sono i soliti quattro gatti, le solite vecchiette della messa delle otto. Anche se sembra più folclore che religione. Anche se non vediamo, lui è lì e noi dobbiamo accompagnarlo in quelle strade così affollate, piene di confusione e chiacchiere. Non possiamo lasciarlo solo agli insulti e agli sputi, all’indifferenza e alla distrazione.
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