QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #26 DESTINATA

Sessanta secondi per osservare l’anello formato dai tributi che si trovano tutti alla stessa distanza dalla Cornucopia, un gigantesco corno dorato che ha la forma di un cono con la coda ricurva. Dalla sua bocca, alta almeno sei metri, scaturirà tutto ciò che ci farà sopravvivere qui nell’arena. […] Alla mia sinistra e dietro di me, un rado bosco di pini. È lì che Haymitch vorrebbe che andassi. Subito. Sento le sue istruzioni risuonarmi nella mente. “Limitatevi a filarvela, mettete tutta la distanza che potete tra voi e gli altri, e trovate una fonte d’acqua”. Però è allettante vedere il dono che aspetta proprio lì, davanti a me. E so che se non lo prendo io, lo prenderà qualcun altro. E che i Tributi Favoriti che sopravvivranno al bagno di sangue si spartiranno la maggior parte di quel bottino che può mantenerli in vita. Qualcosa attira il mio sguardo. Là, sopra un mucchio di rotoli di coperte, c’è un faretra argentea piena di frecce, e c’è anche un arco, già incordato, che aspetta solo di essere teso. Quello è mio, penso. È destinato a me. […] Haymitch non mi ha mai visto correre. Se mi avesse visto, magari mi avrebbe detto di provarci. A prendere l’arco. Perché quella è l’arma che può rappresentare la mia salvezza. E vedo solo un arco, nel mucchio. Il minuto dev’essere quasi passato e devo prendere una decisione sulla strategia da seguire. Mi ritrovo già in assetto di corsa, i piedi rivolti non verso le foreste circostanti ma verso il mucchio, verso l’arco. Poi, all’improvviso, noto Peeta, è a circa cinque tributi da me, sulla destra, una discreta distanza, eppure capisco che mi sta guardando e mi pare di vedere che sta scuotendo la testa. Ma ho il sole negli occhi, e mentre ci sto riflettendo suona il gong. E l’ho persa! Ho perso la mia occasione!

Hunger Games, libro I, capitolo 11

“Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io.”

Giovanni 14: 2-3

Katniss è nell’arena.

L’incubo ad occhi aperti ha inizio: niente pause, niente risvegli, solo morte in successione, sperando non sia la propria. Solo qualche pagina prima l’ascoltiamo mentre medita sul fatto che tra un ora potrebbe effettivamente essere morta.
Ed ora è qui, e la sua mente registra ogni attimo perché sa benissimo che non ci saranno seconde possibilità, che ogni istante passato a pensare può esserle fatale, che non si gioca più all’addestramento ma ognuno di loro vuole la morte del proprio vicino, perché significherà la sua vita. 
Così la nostra ragazza ha solo sessanta secondi per pensare se tuffassi a prendere i tesori racchiusi nella cornucopia – sconsigliatissimo dal suo mentore che le assicura un bagno di sangue senza eguali per chi si avventurerà alla ricerca di provviste ed armi – oppure svignarsela a mani vuote, con la speranza di sopravvivere senza nient’altro che la propria divisa nella gelida notte tra i boschi e chissà quali altre insidie.
Presa dalla paura, Kat cerca di trovare una risposta.

E poi la vede.

Lì, in mezzo a delle coperte insignificanti, ecco la risposta alla sua domanda. Kat sa perfettamente che l’arco ammaliante che si ritrova davanti è destinato a lei.
Sì, usa proprio questa espressione <<“destinato” a me>>: faretra argentea piena di frecce, arco incordato che aspetta solo di essere teso.
E suo, pensa.

Ed è divertente che in effetti qui la parola “destino” abbia a che fare con una corsa sfrenata, forse letale.
Destino, dal latino <<de>> – prefisso di distacco – <<stinare>> – forma allungata di “stare“.
Destino vuole dire che non si può stare fermi: è l’esito di qualcosa che in questo momento è ferma, che si trova immobile davanti a noi.

E mentre il destino è esterno, destare è ciò che si trova nel nostro raggio di azione.

De-stare, smettere di stare immobili.

Kat è destata da quello che sembra essere proprio il suo destino.
Decide così di fare di quel miraggio la sua destinazione.
Ma qualcuno la ferma, la insospettisce, la fa vacillare, le fa perdere l’unico momento che ha per scattare all’assalto.

Così quel destino rimane incompiuto:

a fatica Kat si desta e, ritornata in sé, cambiare destinazione.
Quanta disperazione tra i suoi pensieri, in un solo secondo.

E questo, esattamente questo, è ciò che può rovinarci la vita: credere che l’unica cosa a cui eravamo chiamati era un destino segnato, la cui assenza ci spinge a un passo dalla morte.

Invece non riusciamo ad afferrare che la verità è oltre quel destino immaginario.

Non riusciamo a capire che il fine del destino è destarci.

O meglio, che l’unica cosa che conta è il nostro destinarci: il nostro scegliere dove essere, la nostra capacità di risvegliarci e lasciarci interrogare da ciò che la vita ci propone, e non piangerci addosso per ciò che non abbiamo raggiunto o che non abbiamo colto al momento giusto.
La vera risorsa che ha Kat, è scattare, destarsi.

Dio non ci ha destinati a nulla, se non ad arrivare a destinazione: eternamente al suo fianco. 
Lui non ci ha messi davanti ad un destino.
Al contrario: ci ha dato la libertà, rendendoci destinatari di un messaggio, di una “buona notizia“, scritta dalla vita dei suoi discepoli, imbustata dagli evangelisti ed affidata ai martiri per essere imbucata in ogni cuore. 

Non possiamo analizzare ogni fase della nostra vita, passando in rassegna ogni segno mancato.
Sì è vero, magari ci stavano mostrando la strada, ma avrebbero potuto anche significare la nostra “morte“.

Non si sceglie la via da percorrere per sensazioni, per un sentimento, un moto “di pancia”, un’attrazione.

La nostra vita non può e non deve essere la scelta concatenata di attimi di “sentire” ma la maturazione di risvegli profondi che ci aprano gli occhi ed il cuore, la collezione di sguardi che ci mostrino un’esistenza più vera.
Immaginare che ogni cosa che vediamo sia “lì per noi”, che se è a portata di mano allora va colta, ci farà rischiare ogni volta di essere trasporti alla morte proprio dal nostro desiderio.
Penso a tutti quei tradimenti “di pancia“, ai cambi di rotta perché si sente il bisogno di una “ventata d’aria fresca“, a quelle famiglie spezzate perché “al cuore non si comanda“, a tante vite illuse da un “destino” avventato ed inappropriato, vuoto e senza destinazione.
Ad emozioni e sentimenti che non ci destano davvero, anzi, ci trasportano in una cornucopia dorata: piena di tutto ma vuota di vita, illusoria e mortale.

Auguriamoci sempre di poter trovare un Peeta tra la ressa: qualcuno che sa dirci di no, che sa essere brutalmente vero e spietatamente autentico, tanto da mettere in dubbio le nostre scelte, da costringerci a riflettere, da proteggerci da noi stessi e magari farci cambiare direzione, salvandoci la vita. 

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