QUARESIMA NELL’ARENA DEGLI HUNGER GAMES #9 I SENZA VOCE

(Katniss) “Ma io ti conosco!”.  Non riesco ad associare un nome o una data al viso della ragazza. Ma non ho dubbi. I capelli rosso scuro, i lineamenti magnifici, la pelle bianca come porcellana. Mentre pronuncio quelle parole, alla sua vista mi sento stringere lo stomaco per l’ansia e il senso di colpa, e benché non riesca a riportarlo in superficie, so di avere qualche brutto ricordo associato a lei. L’espressione di terrore che le attraversa il viso aumenta solo la mia confusione e il mio disagio. Lei si affretta a scuotere la testa, facendo segno di no, e si allontana rapidamente dalla tavola. Quando giro gli occhi, i quattro adulti mi stanno guardando come falchi. “Non essere ridicola, Katniss. Come potresti conoscere una senza voce?” – dice Effie con durezza – “Che idea!”.   “Cos’è una senza-voce?” chiedo scioccamente. “Una che ha commesso un crimine. Le hanno tagliato la lingua, quindi non può parlare” – spiega Haymitch – “Probabilmente è una traditrice di qualche genere. Non è possibile che tu la conosca”. “E anche se fosse, non devi rivolgere la parola a nessuno di loro, a meno che non sia per dare un ordine” – dice Effie – “È ovvio che non la conosci davvero”. Ma io la conosco. E adesso che Haymitch ha menzionato la parola traditrice ricordo anche dove l’ho conosciuta. […] Mi accorgo di voler parlare di quella ragazza con qualcuno. Qualcuno che magari possa aiutarmi a capire tutta la sua storia. Gale sarebbe la prima persona cui mi rivolgerei, ma è improbabile che io lo riveda. Cerco di pensare se parlarne a Peeta potrebbe dargli qualche vantaggio su di me, ma non riesco a vedere come. Forse confidarmi con lui gli farà credere che lo considero un amico. […] Peeta mi guarda con aria di attesa. Faccio finta di studiare un fiore. “Un giorno eravamo a caccia nei boschi. Nascosti, in attesa della selvaggina […] io e il mio amico Gale. […] E poi l’abbiamo vista. Sono sicura che era la stessa ragazza. C’era un ragazzo con lei. Avevano i vestiti a brandelli. Correvano come se ne andasse della loro vita. […] “L’hovercraft sbucò dal nulla” continuo. “Voglio dire, un attimo prima il cielo era vuoto e un attimo dopo era lì. Non faceva alcun rumore, ma loro lo videro. Dall’alto lasciarono cadere una rete sulla ragazza e la tirarono su veloci, veloci come l’ascensore. Spararono una specie di lancia contro il ragazzo trafiggendolo da parte a parte. Era attaccata a una fune e tirarono su anche lui. Ma sono certa che era morto. Sentimmo la ragazza urlare una sola volta, il nome del ragazzo, credo. Poi l’hovercraft scomparve. Si volatilizzò”. […] Ma prima della comparsa dell’hovercraft, la ragazza ci aveva visto. Mi aveva guardato dritto negli occhi e aveva lanciato un grido d’aiuto. Ma né io né Gale avevamo risposto. “Stai tremando” dice Peeta. Il vento e la storia hanno scacciato ogni traccia di calore dal mio corpo. L’urlo della ragazza: era stato l’ultimo?

Hunger Games, libro I, capitolo 6

Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.

Marco 1,21-28

Quante volte anche noi siamo ridotti al silenzio dal peccato?

E me ne accorgo perché sono i momenti in cui sbraito di più! No no, avete letto bene: il silenzio del peccato è chiassoso. Ci mette a tacere in un angolino della nostra coscienza ad osservare una scena che non sembra neanche reale. La rabbia fa così, ma spesso lo fa anche la tristezza e la paura. Escono da noi cose che neanche avevamo mai creduto di pensare. Cos’è che parla al posto nostro, che riduce al silenzio la coscienza, che devia le nostre parole e manipola i nostri pensieri?
Un cristiano la risposta ce l’ha.
E a fare più male è la memoria, perché le cose dette nella rabbia sono quelle che restano più impresse nella mente, più scolpite di qualsiasi complimento, come se dentro di noi avessimo un registratore per tutti i giudizi negativi, tutti i nostri fallimenti, tutti i nostri difetti smascherati, tutti i “te l’avevo detto”, “guarda che non ce la fai” e i “lascia perdere”. 

Il registratore che abbiamo ereditato,

modello di ultima generazione nuovo di pacca, si chiama “peccato originale”: ce lo passiamo da anni oramai ma non perde mai un colpo, o meglio, ne ha persi due, una certa “Maria” e suo Figlio.
Al netto di ciò, possiamo dire che è infallibile.
Una parte di noi ci rema contro, e dobbiamo prenderne il timone.
E non vale dire “io non ce la fo”, “non sono in grado”, “è troppo, mi arrendo!”.

C’è stata una festa, anni fa,

e magari non la ricordiamo.
C’è stata una festa ed oltre agli invitati è arrivato Dio stesso: ci ha dato un documento, un modulo di adozione firmato da lui, ci ha dato quel timone rendendolo della nostra misura e un libretto di istruzioni nel caso ci perdessimo in mare: tutto questo noi lo chiamiamo “battesimo”.

Ma Dio non ci lascia soli in questa navigazione, avanti e a fianco a noi ci sono barche che veleggiano con destrezza e ci danno consigli, mappe, manuali : i Santi.
Così questo “peccato originale“, questa onda contraria che fa parte di noi, possiamo cavalcarla, domarla, superarla ogni volta.
Ma c’è di più: i Santi, i discepoli, coloro che hanno incontrato Gesù, hanno trovato le istruzioni per invertire il registratore.

La chiave per ricordare ogni volta che siamo figli di Dio, oltre ogni sbaglio.

Non ci si può credere eh, invece è così, e solo Gesù ci riesce, per un motivo molto semplice: la sua autorità.

Non è un modo di parlare, non è la voce calma e la fermezza. Non si può replicare. Per un motivo molto semplice: la sua autorità era dovuta al fatto che quello che diceva si incarnava nella sua stessa vita.
Non stava insegnando la perfezione, è la perfezione.
Non ti inculcava nulla, ti mostrava la via con la sua vita.
Non cercava di capire com’era il tuo cuore, leggeva il tuo cuore dal di dentro.
Questo rende Gesù l’unico in grado di invertirci il registratore.
L’unico che “guardatolo, l’amò“, come Dio quando ha creato il primo uomo, nonostante “la macchia” che si sarebbe fatto.
Continuiamo ad essere amati al netto delle nostre ferite, delle amputazioni, delle cicatrici.
Di un amore così stravolgente che è capace di invertire il registratore, se lo vogliamo, se lasciamo che quell’amore arrivi fino in fondo. 

Poi ci sono storie straordinarie, storie di uomini veri, di vita vera, di una testardaggine unica che sembra dirci “ehi, dai, c’è speranza anche per te“. Perché possiamo arrotolarci in noi stessi fino ad osservare solamente il nostro ombelico, ma Dio, per quanto ci facciamo “io” centrici, verrà fin lì ad aprirci al mondo. 

La storia che ci interessa ora è di un uomo, Zaccaria, sacerdote del tempio, che nonostante gli scritti, gli insegnamenti, gli approfondimenti e le discussioni, quel timone lì, non lo destreggiava. 
Avviene nella sua vita una cosa straordinaria: come ogni uomo, ha le sue ferite, le difficoltà della vita, ma appare un angelo, e che angelo, un certo Gabriele che quei giorni era abbastanza indaffarato in annunci vari, che gli dice che ogni cosa tornerà a posto.
Un miracolo. Cose dell’altro mondo!
Quello che tutti vorremmo per la nostra vita: qualcuno di soprannaturale che ha il controllo e che ti dice “Tutt’a posto! Ha fatto Dio, goditela!”.
Ecco, mentre l’angelo espone la grandezza del miracolo – parole, righe e dettagli di spiegazione – Zaccaria non se la gode.
Non solo non se la gode, ma non ci crede.
Quel timone del “peccato originale” non è ancora alla sua portata, non è ancora nelle sue mani, non cavalca le onde ma sono le onde che hanno il possesso della sua barca, della sua vita.
Zaccaria non riesce ad uscire da quella tempesta, ne è talmente sovrastato che quando uno si accosta e gli dice che lo scorterà fuori, lui pensa che è pazzo e che tutto questo è impossibile.
E mentre avviene tutto questo, c’è un colpo di scena: Zaccaria diventa muto.
E l’angelo risponde: “Ecco, tu sarai muto, e non potrai parlare fino al giorno che queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole che si adempiranno a loro tempo”.
Zaccaria viene messo a “scuola di navigazione”, in silenzio, nell’angolino, ad osservare come Dio governa i mari e placa le onde, ad imparare come si tiene in mano un timone, come si legge una mappa, come ci si orienta alla luce delle stelle.
Più straordinario della nascita del figlio in età adulta, più straordinario della profezia che l’angelo gli fa di quel bambino, Zaccaria impara a navigare la sua vita, in un tempo limitatissimo: all’incirca 9 mesi.

E quando anche noi vogliamo navigare bene quelle onde, quando la tempesta sembra avere la meglio, abbiamo la soluzione: diventare Zaccaria, in silenzio, senza sbraitare, e lasciare il timone a Dio, imparare da lui come si navigano le tempeste ed allo stesso tempo avere fiducia che le onde si placheranno.

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