PRIMA SCELTA

Commento al Vangelo Lc 14,1.7-14

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Per anni,

per tutti i lunghi anni di scuola, dalla prima elementare al quinto superiore, sono stata l’ultima scelta o quasi. Avete presente l’ora di educazione fisica? Quando si gioca a pallavolo e si formano le squadre? Ecco, proprio lì, ero l’ultima scelta. Non ero capace, ero goffa – lo sono tutt’ora ma con serenità – e non prendevo una palla. Era difficile essere l’ultima scelta, era doloroso e triste, mentirei se dicessi il contrario. Fingevo di essere superiore, di non interessarmene, la prendevo a ridere, ci scherzavo, facevo battute, ma era motivo di profonda amarezza. Non era colpa di nessuno, perché nessuno vuole un incapace nella propria squadra, tutti vogliono vincere, anche a nove anni. Possiamo raccontare ai bambini la favola del “l’importante è divertirsi e giocare, non vincere” quanto vogliamo, ma in realtà siamo noi i primi a non crederci, perché poi quando vinciamo esultiamo e siamo felici.

Tutti vogliono questo, arrivare primi, vincere, poter esultare.

Quindi ci vogliamo liberare dei pesi, delle persone che ci ostacolano, che ci impediscono di arrivare primi.

Oggi, molto più che trent’anni fa, ci sono degli standard ai quali fare riferimento: bambini poliglotta, bambini che fanno almeno due sport, e al tempo stesso che sanno suonare uno strumento musicale. Bambini che a tre anni hanno già visitato capitali europee e fatto voli intercontinentali. “Fare esperienze”, lo chiamiamo, ed è bello e giusto, ma quella spinta ad essere primi è ancora più forte, la corsa inizia da quando si è piccolissimi.

Allora a noi adulti spetta il dovere sacrosanto di domandarci se il desiderio dei nostri figli di essere primi –  desiderio che alimentiamo noi genitori più o meno consapevolmente –  sia simile a quello di Lucifero. 

Anche lui voleva essere primo, anzi il Primo,

voleva essere come Dio, anzi voleva essere Dio. È sufficiente un articolo o una congiunzione per cambiare la storia, la nostra e quella dell’umanità.

Perché voler essere primi, voler fare grandi cose, voler lasciare il segno in questo mondo non è affatto un desiderio cattivo, ma deve essere mosso dalla consapevolezza che se fosse per noi non saremmo capaci di nulla. Tutto ciò che c’è di buono in noi viene da Dio, di nostro abbiamo solo il peccato.

Ma come spiegarlo ad un bambino? Come spiegare che essere primi, essere i più bravi, i più capaci in tutto non è la parte migliore, ma che invece il meglio sta nel cammino, sta nelle amicizie che incontriamo, nelle persone con le quali viviamo le esperienze piccole e grandi?

Un sacerdote mi disse che un dono grande che possiamo fare ai nostri figli è educarli al sacrificio, far sperimentare loro piccole rinunce.

E poi mostrare con la propria vita la dirompente potenza dell’amore gratuito, della cura disinteressata.

Questo lo possiamo fare davvero tutti, basta che ci voltiamo verso di loro, verso i nostri figli, basta che togliamo i cellulari dalle nostre mani e li ascoltiamo, ci interessiamo a loro. Il sacrificio sta nel non urlare, nel non arrabbiarci di fronte all’ennesima crisi di nostra figlia. Il sacrificio sta nel controllare i nostri impulsi negativi nel momento in cui nostro figlio non vuole fare i compiti, sono le sei del pomeriggio e noi siamo stanchissimi dopo una giornata di lavoro. Il sacrificio sta nel non fare la predica alla figlia adolescente che la domenica mattina non vuole più venire alla messa con noi. Il sacrificio sta nell’abbracciare sorridenti il figlio che dopo una, due, tre cadute rovinose si presenta alla nostra porta col capo chino e zero fiducia nel futuro.

Ecco che se avremo cresciuto figli capaci di scegliere per la propria squadra la bambina meno atletica della classe perché è loro amica, avremo fatto qualcosa di buono, anzi molto di più. E in tutto ciò valgono sempre le parole di Santa Giovanna D’Arco: “A noi la battaglia, a Dio la vittoria!“. 

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