ONCE UPON A LENT – Miracoli da salvare
“Nel momento più buio ricevemmo un miracolo: la candela divenne una fiamma magica che arde in eterno e ci fece dono di un posto sicuro in cui vivere, pieno di meraviglia, un incanto.”
Che altro può essere questo, se non la nostra Pasqua?
La Pasqua che noi conosciamo?
Quella che dal momento più buio della storia umana, dal momento in cui l’uomo uccise Dio, scaturì il Miracolo?
E questo perché l’amore di Dio per noi non poteva permettere che quel momento di dramma lì, diventasse la nostra vita, la nostra condanna.
Perché fosse sempre l’Amore, la nostra strada, la Vita, la Verità.
E se facciamo attenzione, ogni giorno l’incanto di quel Dio risorto, si ripete: nell’amore delle nostre famiglie, nell’amore tra genitori, tra fratelli, tra generazioni.
Quell’amore che è viscerale, è dentro di te, e non ha bisogno di spiegazioni o scelte: è puro.
“Il miracolo si propagò e casa nostra, la nostra casita, prese vita e ci accolse.”
Un miracolo che da quel giorno si propaga, che anche oggi vive in noi: la famiglia.
Ma non basta, l’amore vuole strafare, l’amore di quel nucleo lì ci permette di crescere, di maturare, di scoprirci e fare cose straordinarie: “il miracolo donò a ciascuno un talento magico per aiutarci. E tutti insieme ognuno con il suo talento hanno reso la nostra casa un Paradiso.”
Sì perché se il Cielo in Terra è possibile, è grazie a te, ad ognuno di noi, a ciò che tutti i giorni scegliamo, nelle piccole cose così come nei grandi momenti della nostra vita. Ma se le nostre stanze interiori risplendono della nostra persona, delle nostre qualità, delle nostre doti, diventando rifugi insostituibili, è anche vero che lì dentro, siamo soli.
E la nonna lo ripete sempre: “Rafforza questa comunità, rafforza queste mura, rendi fiera la tua famiglia!”.
Mettiti al servizio.
Un segreto di fecondità, di amore, di speranza e di altruismo. Ma quando a mancare a noi stessi, siamo proprio noi? Quando nessuno vede le nostre doti? Quando non ci riconosciamo?
Quando neanche gli altri ci riconoscono?
Come possiamo dire davvero chi siamo? Quando non siamo classificabili, quando siamo fuori dal coro, quando non sappiamo cosa ci definisce come renderci utili, che ruolo ricoprire.
Siamo davvero parte di quel disegno di Creazione?
Siamo davvero fuoco che arde o servi inutili?
Mirabel si squalifica, lei, piccola macchietta della famiglia, senza doni e senza “stanza” sembra forte e appagata, ma in realtà cerca di nascondere ed attutire il colpo: “Forse il tuo talento è negare la realtà!” si sente rincalzare quando cerca di omettere la verità, di tacere l’imbarazzo che davvero lei è senza dote, è l’unica che non sa come “risplendere”.
Sì perché anche la nonna fa capire alla nipote quanto tutti, tranne lei, abbiano un compito: “Per alcuni di noi il miglior aiuto possibile è farsi da parte: lascia che il resto della famiglia faccia le cose al meglio”.
Quella colpa, che da anni cerca di nascondere, con i festeggiamenti per suo cugino, risuonerà in lei così forte da far scuotere le fondamenta dell’intera casa, facendo correre crepe profonde tra l’apparente unità della famiglia.
E anche nelle nostre, di famiglie, spesso si nega la realtà, si nasconde la polvere sotto i tappeti: si collabora e si fa marciare tutto nella giusta direzione, ma non c’è tempo per ascoltarsi, non c’è abbastanza umiltà per alzare la mano, non ci si abbraccia più davvero.
E dalla scioccante visione delle crepe nella “casita”, Mirabel si mette in testa di dover salvare il Miracolo. Inizia ad indagare dalla sorella Luisa, perché qualcosa la preoccupa e può avere a che fare col suo talento, cona magia che diminuisce. E mentre cerca di farla parlare, ecco scaturire come un fiume in piena la confessione della sorella in stile canzone Disney:
“Non preoccuparti tua sorella è forte e lei non crolla, un altra al posto suo di sicuro molla, ma lei saprà salvarti.” Eppure “Sento enorme il peso delle aspettative, di pressione, tensione, preoccupazione, ho le spalle larghe, mi piego ma non posso spezzarmi mai”.
Così Mirabel, che non vediamo affatto coccolarsi con i suoi familiari, presa da un amore sconfinato per la sorella, l’abbraccia e ne ha compassione: “Il peso che porti è troppo”.
Da questo gesto d’amore, semplice e sincero, iniziamo a scoprire il talento di Mirabel: l’ascolto, la comprensione, la vicinanza di chi ama.
In sostanza, ciò che più definisce il carattere di Dio: la Misericordia.
Sarà un caso che proprio questa novena della compassione di Dio per noi, vuole aver inizio precisamente il giorno in cui l’uomo sbatté le porte in faccia a Dio, anzi lo bandì direttamente dalla faccia della terra: il Venerdì Santo?
In questa favola che ripercorre anche le nostre, di storie, la piccola Mirabel si ritrova ad ascoltare ed accompagnare fuori dalle loro “stanze” perfette, dai loro rifugi di talento ed apparenza, le sue sorelle: amate ma mai comprese, venerate ma mai conosciute davvero.
Riunisce tutti, il suo cuore, e fa “sbocciare” anche nell’altra sorella, Isabela, nuovo amore, nuove emozioni, nuove sensazioni che prima erano affossate e soffocate dal peso di dover essere all’altezza, di una perfezione controllata e pilotata che non ha nulla a che vedere con la vita vera, con le proprie caratteristiche e l’autenticità di se stessi.
Aspettative e responsabilità, ruoli e doveri imprigionano le due sorelle, che vengono sciolte dai loro fili di marionette da quell’abbraccio di misericordia della sorella inutile, Mirabel.
Le fondamenta della casa verranno davvero scosse irrimediabilmente quando Abuela, la nonna di ferro che tiene le fila della famiglia “marionetta”, viene smascherata dalla piccola Mirabel, i cui fili non sono mai stati stretti dalla nonna, proprio perché senza poteri, e quindi mai assoggetata alla sua volontà cieca.
La casita crolla.
Tutto si concluderà per il meglio quando la misericordia di Mirabel toccherà anche le corde della storia di quella nonna, tutta sofferenze e paure, che aveva già minato tanti anni prima all’integrità della famiglia, costringendo lo zio Bruno ad abbandonarli.
E sarà la Misericordia a far rinascere il cuore della famiglia, perché proprio nell’amore tra la nonna e la nipote bistrattata, la storia ci farà scoprire che la candela che tiene accesa la magia della famiglia, altro non è che il cero donato ai due giovani “Abuela e Abuelo” (nonno e nonna di Mirabel) nella cerimonia di matrimonio, fiamma d’amore eterno di quella nuova famiglia che nella fiaba viene spezzata troppo presto dal sacrificio del nonno, che dona la sua vita per salvare la moglie e i figli neonati dai banditi.
Quella candela, intagliata con due fiori di pizzo, e nel cui vuoto tra i due fiori, compare la forma di una tau, come l’unione di moglie e marito il cui “vuoto” viene rimpito dall’amore di Cristo nella vita di tutti i giorni, nelle incomprensioni, nelle delusioni di coppia come nelle difficoltà. È nella candela del matrimonio il cuore di quell’amore che mai ha smesso di splendere tra quei due ragazzi.
Quell’amore che nella favola si era fatto scudo tra la famiglia e chi voleva distruggerla, alzando una barriera di montagne, è lo stesso che 2.000 anni fa fece spaccare la terra e rotolare la pietra.
Quel miracolo che nel nostro “Encanto” era riuscito a donare un posto sicuro dove vivere, che si era propagato come dono per i figli lasciando in ognuno un talento speciale, da tramandare a loro volta ai propri figli, è lo stesso che Dio ci dona ogni giorno con la nostra vita, la nostra storia, i nostri talenti, alla luce della sua Misericordia.
E non dobbiamo stancarci di chiederlo, come Mirabel, che vogliamo il nostro miracolo. Non dobbiamo smettere di confidare nel suo amore: “Tu puoi cambiare la mia vita”.
Per accorgerci che ciò che tanto desideriamo, Lui ce l’ha già donato, per “risplendere“, ma solo in un modo diverso da come noi avevamo pianificato, da come noi eravamo abituarci a vederci.
Perché quando non lo crediamo possibile, come lo zio Bruno che si sacrifica e lascia la famiglia per proteggere la nipote, quando crediamo che il nostro talento non aiuti nessuno, possiamo sempre sempre sempre ricordarci che quello che in fondo conta è che quella famiglia noi l’amiamo.
E il suo destino, il destino di quell’amore scaturito dai nostri avi e dall’amore prima di loro, è sigillato nella nostra vita e dipende anche da noi.
Anche quando sembra che “l’incanto non c’è più”, che non siamo più bambini e i problemi sono grandi davvero, tanto da fare paura.
Per accorgerci che in fondo non era la perfezione, quella che animava la nostra casa.
Che la nostra storia è anche quella di una donna, magari di nostra nonna, inginocchiatasi al dolore come Abuela 50 anni prima, o come Maria sotto la croce del figlio.
Ma se da quel dolore non ripartiamo, come Lei, ci ritroveremo ancora inchiodati a quell’atrocità, a quella terra sotto le ginocchia, a quella voragine che inghiotte il nostro amore lasciandoci indietro una vita vuota.
Come Abuela, senza esserci alzati davvero, ma aver vissuto solo alla luce della paura.
Come con quel talento che è un vero e proprio dono ma ci schiaccia, ci asserve, ci toglie la “voce” e sembra ostacolarci.
Bisogna avere occhi per vedere che il vero miracolo è un famiglia con amore e non senza ferite.
Non bisogna, come faceva la nonna, ostinarsi ad ottenere nuovi “miracoli” e talenti nella nostra vita, ma guardare quella nostra stessa vita in un nuovo modo, cercare già in essa il vero “miracolo”.
Avere il coraggio di aprire una porta nuova, di una casa che non è perfetta, il coraggio di vedere nel nostro riflesso, solo noi, senza pesi, senza obblighi, senza difetti, senza aspettative.
Perché in fondo la chiave delle nostre case, anche per le nostre, di famiglie, sta in questa spiegazione di Bruno:
“Famiglia miracolata. Come salvi il miracolo? Abbracci tua sorella!”
Ricordandoci che in quell’abbraccio c’è la sorte della famiglia che non dipende da lei, tua sorella, da come è fatta e da quanto lei ti ami, ma dipende unicamente da te, dalla tua scelta di abbracciarla, nonostante tutto. Dipende da quanto tu ti metti a disposizione della Misericordia.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Fornisci il tuo contributo!