Oltre il filo spinato

Si dice che un figlio è una parte di te in giro per il mondo.

Io credo sia di più, molto di più. Se dovessi trovare le parole, proverei ad avvicinarmi così: un figlio è la parte migliore. Quella di lui, che ti ha fatto perdere la testa; quella di lei, che ti ha fatto finire in ginocchio ai suoi piedi. Ed anche così sarebbe troppo poco perché in un figlio vediamo sì la nostra parte migliore, ma tutta questa bellezza è racchiusa in uno scrigno di libertà invalicabile, costellato da perfette imperfezioni e qualità splendenti. Sì, sono i nostri figli che fanno risplendere la nostra vita come le stelle che brillano il manto nero del cielo. Così per loro vorremmo un mondo di sogni, pronti per essere realizzati, vorremmo una strada sicura che li porti alla felicità, vorremmo il meglio perché non ci sarebbe altro modo per ripagarli della vita che ci hanno donato e ci restituiscono ogni giorno.

Al limite dell’immaginabile, siamo pronti anche a con-segnarli:

perché con loro è il nostro “signum”, segno, affidarli alle cure di qualcun altro poiché siamo sicuri di aver lasciato in loro un tratto indelebile, perché l’amore marchia l’anima più del male. Siamo legati da qualcosa che è più reale di quel cordone ombelicale, da qualcosa che è ancora fonte di vita indissolubile, le nostre vite che non si separano e saranno sempre intente a ritrovarsi e con-giungersi, “cŭm-iungĕre”, unirsi-insieme, di nuovo. Per questo vorremmo una vita piena di presenze ed “esserci”, perché ciò che conta sarà farci dono per l’altro quando avrà bisogno di noi, consapevole o meno, quelle “presenze” nascoste che fanno di noi persone irripetibili ed uniche, custodi sì della nostra esistenza ma soprattutto di quella altrui, che è essenza stessa della nostra vita: con-servare, “cŭm servāre”, custodire-insieme . Straziati dal dolore accettiamo di con-sentire il loro bene, scegliamo di sentire non il nostro dolore ma la loro vita, il loro esistere in pienezza, perché sicuri che vivremo di quel “sentire con loro” il meglio che arriverà (“cum-sentire”, essere dello stesso sentimento). Impariamo a con-siderare la strada migliore per la nostra famiglia, che non è altro che desiderare, guardare le stelle e scegliere i desideri, come fossimo in un enorme bazar, guardare il Cielo e ricordarci che c’è un Infinito più grande che ci aspetta oltre questa terra e ci dona tutta la sua immensità (“con-sidus -ĕris”, osservare le stelle, insieme agli astri). Perché guardare un figlio ti decentra, e sposta tutte le tue asticelle (innalzando enormemente quelle di sopportazione, abbassando di gran lunga quelle della superbia e della presunzione), così come l’ago della bussola che ora non punta più il nord ma dove sono loro, adesso che ti ritrovi a con-templare, cioè a stare “cum-templum” assorto nello spazio tra te e il Cielo, tra ciò che è reale e tangibile e ciò che è divino, la vita sacra ed inestimabile di tuo figlio. Per loro siamo pronti a con-fidare: “cum fides”, vivere insieme nella fede, a non lasciarci sopraffare dalle tenebre, essere per loro fonte di vita inesauribile, sicuri che il meglio deve ancora venire, ed il buio che ci sovrasta non ci spaventa poi così tanto.

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