Quello che so sulla sofferenza
Non lo so come ci si sente a essere intrappolati nel proprio corpo.
Non so se quanta frustrazione si prova o quante volte al giorno ci si chieda “che ci sto a fare qui, ormai?”.
Non lo so com’è quando casa tua ti sembra una prigione, quando non provi più piacere neanche nel sapore del cibo che ti arriva da un tubo. Non lo so.
Non so cosa significhi non poter più scrivere, parlare, farsi capire. Non so con quanta rabbia si deve convivere e soprattutto con quante domande.
“Non era meglio se fosse finita subito?”.
Non lo so. Io sono fortunata, per ora.
Quello che so perché l’ho visto e in parte vissuto è che quando raschiamo il fondo, che sia la nostra sofferenza o il dolore di qualche caro, è in quel momento che succede qualcosa di incredibile: solo le cose che contano davvero restano. L’amore quello vero, fatto di presenza, di pannoloni da cambiare, di momenti così bassi che solo l’amore può sopportare. Anche se il cuore fa male.
Resta quell’amore di cui racconta S. Paolo nel vangelo (e dico San Paolo perché no, non mi viene in mente qualche poesia o trattato di altro scrittore famoso che lo descriva così bene): quello silenzioso, fatto di servizio.
Quello che non chiede se non di vedere un sorriso almeno oggi, una parola in più, una giornata senza vomito.
Quell’amore che vorrebbe dare anche quello che non ha e che comunque dà tutto.
Forse è azzardato dire che il dolore è una benedizione. Io che non lo vivo non posso permettermi di dire tanto.
Ma passiamo una vita intera a cercare le cose che contano: il tempo per gli affetti che non troviamo mai, l’essenza della vita che non ci soddisfa, per poi accorgerci, nel momento peggiore, che abbiamo tutto. Tutto il resto scompare, laggiù, in quel fondo buio, vediamo davvero.
Non lo so come si misura la qualità della vita, ma credo che l’amore che proviamo o che diamo nella nostra sofferenza o in quella di qualcun altro, sia la più alta qualità a cui si possa mai aspirare.
Ma oggi tutto ruota intorno a noi: quello che mi piace fare, quello che voglio, i miei progetti da raggiungere. Ci sentiamo invincibili e siamo capaci persino di giudicare la qualità della vita degli altri, di chi non è ancora nato, non tanto perché sappiamo davvero qualcosa di quella vita, ma perché cambierebbe radicalmente la nostra, di vita. Sconvolgerebbe i piani, le serate, i viaggi, la carriera.
Ma la sofferenza non la puoi programmare. Arriva e basta. Ma noi siamo troppo presi da noi stessi, dai nostri metri di giudizio, a guardare indietro alla favola che avevamo progettato, fatta di viaggi, di divertimento, di tanti “amici” che oggi non si vedono per accontentarci di questa nuova condizione. Forse non abbiamo abbastanza coraggio, arriva la paura e anche io, prego, in quell’ora, di averla quella forza per essere grata, per guardare avanti e non indietro. Per guardarmi, guardare me stessa con occhi nuovi. Lo devo a chi mi starà vicino, e me lo ricorderà ogni giorno, per primo, e lo devo a me stessa.
Verso noi stessi non siamo più in grado di provare compassione. Non reggiamo l’umiltà di dover ammettere che abbiamo bisogno di aiuto, che siamo diventati larve, sì, ma ancora in grado di amare. Che dobbiamo tutto a quel soffio di vita che ci ha dato tanto e non è nostro compito giudicare quanto ancora ci potrà dare, quanto ancora potremo dare anche dal nostro letto.
Quell’amore però, quello che tutti, anche chi ha scelto di mollare, hanno sicuramente provato, vorrei dire che quello è la cosa per cui lottare fino alla fine, quella è la vera qualità della vita. Ed è strano, ma solo la sofferenza ce lo sbatte in faccia così prepotentemente.
DISCLAIMER: Foto di Dương Nhân
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